sabato 11 luglio 2015

ITS 2015 A TRIESTE: dieci collezioni in passerella

Sabato 11 luglio, gran finale del fashion contest
Tutti pazzi per il Giappone, o quasi, i finalisti fashion di ITS 2015. Mai come quest’anno spuntano dappertutto kimoni e samurai, la tintura shibori e la pittura nipponica, anche lontano dal Sol Levante e con esiti spiazzanti. Il ponte tra passato e futuro, però, si costruisce intorno a due concetti: corpo e materiali. La figura umana non è più un confine, un perimetro o una consistenza definita: si dilata, si moltiplica, si comprime e si espande per adattarsi all’ambiente circostante, per inglobarlo o difendersene.


Le soluzioni più innovative e futuristiche nascono da questa tensione, dall’esigenza di ogni designer di segnare, di rapportarsi con lo spazio intorno. Nelle tecniche emerge forte, invece, il richiamo alla tradizione: tutti, nei loro progetti, mettono enfasi sul “fatto a mano”, “tessuto a mano”, manipolato secondo arti e sapienze artigianali antiche. Ci tengono a far sapere che hanno introitato un’eredità culturale e che la sanno armonizzare con il loro presente.
 
Il futuro sta dentro uno zaino per la svizzera Jenifer Thévenaz-Burdet. I suoi sono “X–treme conquistadores”, come s’intitola la collezione, già pronta per il mercato: donne e uomini muniti di sacchi a pelo che diventano giacche, di borse pronte a riconvertirsi in cappotti, di contenitori tecnici, funzionali, essenziali, in grado di riparare il corpo e di dargli un rifugio a prova di gelo. E una protezione techo, e “playful”, ludica, è anche quella che fornisce la sud-coreana Yunseo Choi al suo uomo-uovo: le giacche e i giubbotti sono dotati di strutture aeree fatte di tubicini ed elastico, che hanno lo stesso effetto anti-shock di quelle costruite dai bambini con le cannucce, negli esperimenti a scuola, per riparare un uovo dalle cadute.

 
Aprono la passerella Far East-oriented le guerriere di Quoï Alexander, americana, che vestono armature di cotone, pelle, corda. Un mix di fibre intrecciate, assemblate, sfrangiate, sovrapposte con manualità sorprendente: dice di ispirarsi alla confezione dei cestini giapponesi, Quoï, e invita esplicitamente l’osservatore a interpretare i suoi pezzi, che, tra etnico e couture, scivolano verso il costume teatrale. L’accento sull’esecuzione lo pone anche la strana coppia creativa formata da Polina Yakobson, tedesca, e Christine Charlebois, canadese: otto donne samurai che, seguendo i codici dell’onore e della dedizione, ma accessoriate per conquistare il presente, indossano capispalla e pantaloni di seta, pelle e maglia tessuti al telaio, annodati e cuciti a mano.

 
Più comprensibile, forse perchè nel suo dna, è il Giappone di Yuko Koike, richiamato nella citazione del kimono e dei colori della pittura nipponica: una coloratissima collezione di maglieria con applicazioni di fiori in plastica, dalla venatura pop, dove la lavorazione tradizionale si fa avanguardia senza squilibri. Fulminata dal fascino orientale, infine, la finlandese Elina Määttänen azzarda un matrimonio (contro natura?), tra le linee diagonali del kimono e una tuta aeronautica russa, tentando di far convivere la morbida estetica giap, accentuata dalla tintura shibori dei tessuti, con la funzionalità militare sovietica.


Nodi, pieghe e intrecci, rigorosamente handmade, creano un effetto tridimensionale, ma tra il senso di “calma” e il “caos primitivo” che Elina si propone di trasmettere, la bilancia pende verso il secondo.
Decisamente maschia la collezione di Attila Lajos, ungherese, che immagina un Leonardo DiCaprio versione maudit, e gli disegna un guardaroba tutto denim, su cui sperimenta al limite del maltrattamento pantaloni strappati e lunghi gilet con applicazioni di Swarovski e stampe. Lavora invece sul corpo femminile la tedesca Paula Knorr: una tuta di lycra color carne simula la nudità, su cui pezzi di tessuto lucido e colorato paiono appoggiati da un turbine di vento.
 

Ci riconciliano con l’idea di couture, infine, due collezioni che non odiano le donne. Grafiche e scultoree come installazioni quelle dell’americana Kim Shui, definite da blocchi di colore, curve e intersezioni di linee. Morbide, floreali, dal gusto retrò le signore dell’inglese Richard Quinn, che - dopo tante improbabili guerriere e astronaute - svettano come apparizioni da abiti da sera e soprabiti in tessuti ricamati, dipinti a mano, stampati. Richard la chiama “cracked couture”, perchè finge di strappare i suoi modelli e di ricomporre diversamente i pezzi originari, ma non c’è niente di spezzato in questa giovane alta moda, solo gusto e poesia.
twitter@boria_a



Cracked Couture di Richard Quinn a Trieste


Nessun commento:

Posta un commento