lunedì 1 novembre 2021

MODA & MODI

 Quelle eredità tessili

sono gioielli da salvare

  



 

Chiamateli pre-loved, amati da qualcun altro prima di noi e rimessi in vendita. Chi li etichetta più come vestiti di seconda mano? I pre-loved oggi sono diventati sciccosi second hand. Le pioniere del riciclo si riscoprono orgogliose avanguardie della recente coscienza ambientalista della moda. Ricordo decine di scambi di qualche anno fa, che continuano a ripetersi senza variazioni: “Che bello, tu hai sempre cose originali”. “Sì, l’ho trovato in un negozio dell’usato”. Alla risposta, e alla rivendicazione della provenienza del capo, seguiva, e ancora segue, l’occhiata perplessa, come davanti a un’innocua eccentrica con la propensione un po’ perversa a scavare negli scatoloni. Il pregiudizio è difficile da scardinare: usato ovvero sporco, derelitto, consunto. Qualcosa che si porta addosso il gusto, le scelte e gli abbandoni di un’altra persona. Seconda mano fino a pochi anni fa faceva miseria. Ora scopro di aver fatto molta economia circolare, da quando, ragazzina, esploravo con scarsi esiti le “jumble sale”, i mercatini in garage di un gruppo di virtuose signore inglesi.

Gli abiti smessi si rivendono e sulla rete esplodono le piattaforme di compravendita e scambi, i siti specializzati, i negozi virtuali, le app senza intermediazioni. Non lo metti? Mettilo in vendita. E il mercato diventa potenzialmente infinito, una planetaria piazza con tanti capi ordinari a cui viene data una nuova vita, pezzi griffati ma riciclati come vetusti da un’utenza sensibile a trend e stagioni, gioielli vintage che costano come tali. Le griffe cavalcano il nuovo mercato, rimettono in circolo i modelli storici riaggiornandoli, anche i jeans rotti si riconsegnano ai produttori che li ristrutturano per rivenderli. È l’upcycling, il riciclato di lusso. Un gigantesco business, con la benedizione della consapevolezza ecologica che spalanca nuove fette di mercato, di tutte le età.


Facile? Tutt’altro. Comprare l’usato è una propensione, ma anche un’educazione che richiede occhio e allenamento. Non c’è nessun fantastico affare ad aspettarci in rete, nessuna borsa Jackie, Kelly, Bagonghi, nessun abito di Balenciaga (Cristobal, non gli epigoni) per quattro soldi. Meglio affidarsi alle piattaforme che offrono un servizio di autenticazione anti-tarocco. Gli stracci delle catene di fast fashion rimessi in pista per pochi euro, rimarranno stracci, con un ciclo di vita impossibile da allungare: chi li vende ne comprerà altri. È un loop, non circolarità, tantomeno verde. Per i capi non vintage ma solo vecchi di qualche stagione ed eliminati per comprarne altri da “instagrammizzare”, bisogna valutare tutto - colore, taglia e taglio - e prepararsi a qualche delusione.


Acquistare l’usato sartoriale è un rito antitetico al clic sulla tastiera. Che ha bisogno di tempo e tempi. Fatto del piacere della ricerca, del tocco del materiale, della scoperta del dettaglio. I ganci nascosti, i bottoncini ricoperti con la stoffa dell’abito, le asole fatte a mano, i lacci col microscopico automatico per fermare le spalline del reggiseno. Da Alessia, pioniera dell’usato triestino con Boogaloo, sono passate tante di queste eredità tessili, alcune, forse troppe, finite nel mio armadio. Raccontano di artigianalità superba, di occasioni, di unicità e irripetibilità. Non mi decido ancora a lasciarle andare, a farle ritornare pre-loved. Voglio salvare prima loro, poi anche il pianeta.

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