mercoledì 10 aprile 2019

L'INTERVISTA

Claudio Magris compie 80 anni: "Una polena mi ha salvato"




 

Claudio Magris compie oggi, 10 aprile 2019, ottant’anni. Un traguardo, per lo scrittore triestino, che va al di là della semplice tappa anagrafica.

Ottanta. Se li sente? «Beh, incidono soprattutto sulle mie camminate. Ma ne prendo atto, la ruota è giusta e continuo a fare quello che posso. Infatti, quando apro il giornale la mattina, la prima cosa che guardo è la temperatura del mare».


Quest’amore sembra alimentarsi ogni anno che passa... «È cominciato prestissimo, mia mamma si tuffava dal trampolino dell’Ausonia ancora in tarda età. Il mare è l’abbandono, la felicità. Non ho stile, non ho mai fatto scuola di nuoto, ma amo lasciarmi andare nelle braccia del mondo. E quello che mi piace di più è il mare disteso, immobile. Curiosamente la letteratura triestina ha potenziato il versante continentale, incappottato, il versante del disagio, mentre il mare per me è l’eros, l’amore, l’armonia, dove si desidera fare esattamente quello che si sta facendo in quel momento e non altro».


Sta pensando a un nuovo libro? «Mi affascinano le polene, queste figura di prua, in genere femminili, messe a prendere per prime le sberle del mare, col seno generoso che fa da scudo, con gli occhi dilatati che sembrano vedere catastrofi inevitabili che gli altri ancora non vedono. Le polene mi hanno aiutato mentre scrivevo “Alla cieca”, ci ho messo degli anni su questo libro. Un giorno, ad Anversa, andai a vedere il Museo navale. E lì, davanti agli occhi spalancati di alcune splendide polene, ho capito cosa mi bloccava. “Alla cieca” è una storia in cui tutto si spacca, si rompe. Io la raccontavo in un modo lineare, ed era lì che sbagliavo, perché anche la narrazione a un certo punto deve buttarsi nel mare della storia, rischiare il naufragio. La Capria diceva che i grandi romanzi del ’900 sono capolavori falliti, perché si assumono il carico dell’impossibilità di raccontare armoniosamente, di far finta di non vedere il disordine, quello che spacca tutto. Sto scrivendo un libro sulle polene, non sarà di invenzione, parlerà dei costruttori di polene, dei cimiteri di polene, delle polene nella letteratura».


I libri che hanno inciso sulla sua formazione? «“I misteri della giungla nera” di Salgari ha influito enormemente su di me. Me lo leggeva a voce alta mia zia Maria, poi quando ho imparato a leggere l’ho finito da solo. L’ho conosciuto come racconto orale, non sapevo nulla del suo autore, né me ne importava, e mi è rimasta sotto sotto quell’idea dell’infanzia che le storie sono per aria, come palle sospese, e chi è più bravo ne afferra una prima degli altri. Letterariamente, gli autori fondanti sono stati Tolstoj, Musil, Kafka e forse più di tutti l’Odissea, un libro molto più contemporaneo dell’Ulisse di Joyce, molto più inquietante. E ancora Dante, tantissimo, e naturalmente Svevo...».


Cosa significa per lei Svevo?
«Aveva ragione Bazlen quando diceva che non era tanto intelligente, ma aveva genio. Forse nemmeno lui se ne rendeva conto, l’aver visto come nessun altro il niente, il nulla, l’assenza di desiderio. Perché Svevo aveva capito che la cosa più terribile non è non essere amati, ma non amare».
Cos’è Trieste oggi?
«Ho vissuto a Trieste fino a diciott’anni poi sono andato a Torino. Avevo letto Dostoevskij e altri grandi autori, ma neanche un triestino, tranne Marin perché era un amico. Ho cominciato a farlo a vent’anni. Dal punto di vista generazionale sono stato fortunato, l’età mi ha preservato dalla guerra, mi sono affacciato al mondo del lavoro agli inizi degli anni ’60, appartengo a quella generazione che per la prima volta vive meglio della successiva. La generazione prima della mia, quella di Giraldi, di Kezich, di Vidusso non ha mai perdonato a Trieste il fatto di essere stata costretta ad andarsene. Io questo sentimento non l’ho mai provato. Torino per me è stata importantissima, nei miei anni di studio era in pieno cambiamento, c’erano l’immigrazione dal Sud, i rifiuti identitari, la mafia, l’Università era il centro della vita sociale e culturale. La popolazione cresceva, mentre allora Trieste declinava. A Torino ho cominciato a leggere Saba e Svevo e mi sono innamorato di Trieste. Oggi la vedo decisamente più vivace, meno fissata su se stessa, meno ripiegata. In passato c’era un’aria più mesta».


Un rimpianto, uno solo. «Non aver potuto né saputo fare il regista cinematografico. Il primo racconto, “Illazioni su una sciabola”, l’avevo pensato come soggetto di un film. Raccontare il gesto, il volto, con la macchina da presa è fantastico, ma non ho quel tipo di sintassi».


I viaggi. Partire è un po’ morire? «Si viaggia per ritornare, come insegna l’Odissea, come faccio con Trieste. Per viaggio intendo il fascino di valicare un limite, una frontiera, ma non necessariamente statale, linguistica o politica, anche culturale e sociale. Intendo il viaggio come idea di incontrare le diversità. Il viaggio che è anche capacità di erigere confini, perché è facile dire che bisogna superare le frontiere di culture diverse, ma se una cultura è portatrice di violenza e sopraffazione, bisogna alzare una barriera. Per me il simbolo del viaggio rimane il confine. Quando andavo da ragazzino a giocare sul Carso esisteva una barriera che non era un confine qualunque, ma la cortina di ferro, invalicabile. E dall’altra parte terre che erano state italiane, un mondo che conoscevo benissimo. L’idea che il noto è anche ignoto è stata fondamentale per me, perché mi ha fatto capire che ogni viaggio può essere andare da una stanza all’altra della propria casa».


L’esperienza politica? «Ha coinciso con il periodo più brutto della mia vita, quando mia moglie Marisa era malata. L’ho sentita come un dovere, non potevo dire di no alla candidatura voluta da cinque partiti diversi, che si erano alleati al tempo dell’ascesa di Berlusconi. Non ho un brutto ricordo degli avversari, non si sono mai approfittati della mia debolezza, diciamo che sono debitore di un colpo in canna. Ma la rappresentanza mi era ostica. Solo una volta ho perso le staffe, quando insultarono Margherita Hack al Tergesteo: mi scaldai, dissi che andava abolito il suffragio universale».


Si faccia un augurio. «Gli anni della malattia di Marisa sono stati una traversata, un viaggio negli inferi, ma mi hanno svuotato dalle pulsioni di morte. Dopo sono stato più capace di vivere e questo processo va avanti. Sono stato fortunato i miei figli Francesco e Paolo sono realizzati, la vita di chi mi circonda è molto più importante della mia, quindi farei da parafulmine volentieri se servisse. Vorrei continuare a fare il bagno a Barcola, farmi offrire una birra se ho dimenticato il portafoglio, andare in giro col mio cane Jackson, a cui devo la celebrità».


Si confida con lui?«Gli confido molte cose legate al momento, soprattutto se qualcosa va male». 


@boria_a

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