mercoledì 20 maggio 2020

L'INTERVISTA: Maria Giuseppina Muzzarelli

Abiti glamour e tacco cinquanta
Dal Medioevo a oggi è sempre questione
di regole 





La prima bolognese colpita dalle leggi suntuarie fu tale madonna Francesca, nel 1276, sospettata di aver sfoggiato uno strascico troppo lungo l’8 di agosto, festa di San Domenico. In realtà, l’incaricato della delicata misurazione da parte del comune non potè nemmeno avvicinarsi alla gonnella della signora, protetta dalla sollevazione dei presenti che finsero di equivocare sulle intenzioni dell’uomo. Assolutamente legittime, peraltro, in base alle nuove norme che volevano “infrenare il generale trasmodamento” e “le immoderate et excessive spexe”. Non era questione di capriccio o di vanità femminile: nessuna donna, meretrici a parte, poteva portare vesti che toccassero terra, pena una multa, che colpiva anche il sarto che aveva confezionato l’indumento incriminato, e la confisca della dote. E sotto la scure del legislatore cadevano anche accessori e gioielli, feste e banchetti.

Ce lo racconta la storica del Medioevo Maria Giuseppina Muzzarelli in un saggio ricchissimo e affascinante “Le regole del lusso” (il Mulino, pagg. 276, euro 24), che illustra un corpus di norme che rimase in vigore in tutta Europa per cinquecento anni, ma che può suscitare più di una riflessione legata al presente. «Quando ho cominciato a occuparmi di questo tema - racconta Muzzarelli - le leggi suntuarie erano quasi una sorta di ferro vecchio, un elemento che era utile per ricostruire usi e idee di un mondo comunque molto lontano. Nel giro di poco tempo, il tipo di interesse si è trasformato sotto le mie mani. Il tema della sostenibilità e dei limiti si è posto al centro della lettura. La domanda è: si può consumare quel che si vuole nel nome della libertà, del consumismo, della circolazione della produzione? Da ultimo, il nostro sguardo si è ulteriormente modificato, perchè il tema delle regole è diventato centrale. È accaduto così che le leggi suntuarie, all’improvviso e in modo inaspettato, da norme di un mondo lontano, sono diventate di “questo” mondo. Tre diversi sguardi si sono posati sulle stesse disposizioni, che, da testimoni di usi, sono diventate riflessione che combina sostenibilità con regole e limiti. Abbiamo dei limiti, dobbiamo darci dei limiti, le misure e le restrizioni sono addirittura uno strumento di salvezza».


 
Maria Giuseppina Muzzarelli


 

Che cosa prendevano di mira le leggi suntuarie? «Quello che suscitava impressione andando per le strade, quello che pubblicamente catturava l’attenzione, quindi soprattutto gli abiti. Intesi come numero, tessuto, ampiezza delle maniche, lunghezza degli strascichi, quanti bottoni avevano e quanto pesavano, arrivando a indicare con precisione la circonferenza della veste all’altezza dei piedi. Persino l’oro che si poteva portare addosso, massimo tre chili».

Un po’ laborioso da verificare... «Il tema delle verifiche arrivava per due strade e anche qui tocchiamo la contemporaneità. Il legislatore prevedeva che funzionari andassero, canne alla mano, perchè ovviamente non c’era il metro, a misurare per strada larghezza e lunghezza degli strascichi, il che comportava evidenti difficoltà. Ma c’era anche un altro aspetto: si chiedeva la collaborazione del cittadino. Le leggi prevedevano regolarmente che si denunciassero le persone che si riteneva facessero uso improprio dello strumento dell’apparire, e che una parte della multa andasse al denunciante. Certo, la delazione è vista come atto sgradevole, ma, l’altra faccia della medaglia è che se le regole servono a salvarci tutti, vanno rispettate da tutti. Anche questo è un approccio che ci riporta al presente. La multa, poi, è una sorta di tassa sul lusso e anche una forma di redistribuzione della ricchezza, quindi i consumi sono leva da utilizzare per aggiustare le differenze, per introdurre elementi di equità».


Oltre agli strascichi non piaceva neppure l’equivalente del nostro tacco dodici... «Il corpo delle leggi esprime il pensiero e il progetto dei legislatori, ma indirettamente ci fa capire anche quello che era apprezzato, desiderato, che andava di moda. Alle donne piacevano queste piattaforme alte, che raggiungevano fino a cinquanta centimetri. Al punto che quando viene emanata la proibizione di portare pianelle più alte di cinque dita, le donne prendono posizione, e una legge successiva stabilisce la libertà di tacco. Che cosa ci dice questo? Che non c’è solo il legislatore col suo disegno, ma anche una società che qualche volta, su qualche aspetto, prende atto dell’irricevibilità delle restrizioni».


Cos’erano le vesti bollate? «Mettiamo che qualcuna ce l’avesse già un abito di un peso o con un numero di bottoni vietato dalla legge. Valeva il principio della non retroattività, quindi il legislatore prevedeva che, entro due giorni - in modo che non si facesse in tempo a confezionare un abito nuovo, aggirando la norma - si potesse registrarlo, facendovi apporre un segno di riconoscimento. Le seimila registrazioni fatte a Firenze ci offrono uno straordinario gazzettino della moda, una testimonianza unica. Nemmeno l’iconografia restituisce così tanti dettagli. Scopriamo che si portavano abiti metà di un colore e metà di un altro, alla Desigual, con righe orizzontali e verticali, addirittura con righe nelle righe, che un vestito poteva avere anche sette, otto colori. Il fenomeno dura trenta, quarant’anni, poi nel ’400 già non è più così».


 
Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, 1540 circa, Galleria degli Uffizi




 

Si vietano anche i tarocchi, lo zafferano usato nei decori per simulare l’oro... «Certo, perchè si voleva a volte apparire dove non esisteva fino in fondo la consistenza economica... E pensiamo che le norme valgono anche per i banchetti, colpiscono l’apparenza data dagli abiti ma anche dal consumo alimentare. È il tentativo di creare un canone più sostenibile, l’invito alla coscienza del consumo. Pur nella larghezza, intesi: si consentivano 4 chili di carne ciascuno... E in campo non ci sono solo i legislatori, ma anche i predicatori, che sulle piazze parlano non di vizi o virtù, non di vanità in generale, ma di appropriatezza del consumo. Vanità non è voler apparire, ma voler apparire qualcosa di diverso dalla propria condizione».

Su cosa si accaniva, in particolare, il legislatore? «C’era una messa a fuoco particolare sull’apparenza delle donne, almeno in Italia, in Francia, meno in Inghilterra. Pensiamo che dal ’200 al ’700 queste leggi vengono emanate in tutta Europa, soprattutto nel ’300, ’400 e ’500, poi sempre meno. Si colpivano le donne non perchè fossero più amanti dei lussi, ma perchè fungevano da vetrina della posizione, del potere della famiglia. Le diverse condizioni sociali si rappresentavano attraverso le donne e la regolamentazione delle apparenze delle donne era un modo per arrivare a tutta la società, ma colpendo particolarmente loro. È un dato su cui val la pena di riflettere, anche perchè gli uomini non vestivano in maniera sobria...».


E la legge non li contemplava? «Alcune leggi fiorentine, altre in Savoia, ma la maggioranza parlano di donne. Quando nasce la moda, al tempo delle prime leggi suntuarie - che vengono fatte proprio perchè la moda è diventata un fenomeno rilevante - la prima e più evidente manifestazione di questa novità è rappresentata dagli uomini. Sono loro che portano farsetti aderenti, gambe fasciate in calze coloratissime, cinture basse per niente funzionali. Le prime manifestazioni di “gratuità”, di moda per moda, sono degli uomini. Negli anni ’40-60 del Trecento questo fenomeno si fa evidente».



Lorenzo Lotto, Ritratto di Lucina Brembati, 1518, Accademia Carrara Bergamo


Obiettivo delle leggi? «Prevalentemente politico. Ma anche economico, per limitare le importazioni, tagliare le spese in un settore e impiegare le risorse altrove, mettere le mani nelle tasche dei cittadini attaverso le multe. E poi morale, obiettivo che si coglie nei proemi delle leggi, nelle predicazioni e negli interventi della letteratura, da Dante, a Villani, alla satira del novellista Sacchetti. Le leggi sono un grande fenomeno, in tutta Europa, con una sua universalità».


Oggi possiamo parlare di regole del lusso? «Noi oggi abbiamo nuove sensibilità riguardo al tema delle regole, non tanto del lusso ma del consumo. Capiamo che sono un limite, una scocciatura, ma anche uno strumento di governo e di coesistenza. L’acquisizione drammatica di questi tempi è un contributo al futuro, un rendersi conto che la società prevede la coesistenza di desideri, gusti, necessità diverse, ma che le regole sono inevitabili e, qualche volta, salvifiche». 

@boria_a

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