lunedì 28 maggio 2012

IL LIBRO

E Pirandello scriveva a Irene Brin: "Mariù, farai carriera"

Irene Brin, nata nel 1911 e morta nel 1969: la apprezzavano Pirandello e Longanesi, ha nobilitato le cronache di costume

Quando scrive i suoi primi articoli, a vent'anni, riceve un biglietto: «Brava Mariù, farai carriera», firmato Luigi Pirandello. Mariù è, al secolo, Maria Vittoria Rossi, classe 1911, figlia di Vincenzo, alto ufficiale dell'esercito, e di Maria Pia Luzzatto, ebrea nata a Vienna, coltissima ed elegante.

Mariù è un diminutivo di famiglia, ma anche uno dei tanti nom de plume con cui firmerà migliaia di articoli. Marlene, Oriane, Maria del Corso, Madame d'O., Cecil Wyndham Alighieri, Geraldine Tron, Contessa Clara e il più famoso, Irene Brin, lo pseudonimo inventato per lei da Leo Longanesi: «Articolo bellissimo, trovato nome. Longanesi».


Il pezzo, che esce su Omnibus, il 19 febbraio 1938, s'intitola "Sera al Florida". È un "cane schiacciato", come all'epoca si chiamano i pezzi di "colore", le cronache di costume che vengono affibbiate agli ultimi arrivati, meglio se donne.
Irene Brin, con quel cognome inventato che la racchiude tutta, che è uno sghiribizzo, un tocco di levità e di grazia in una sillaba, nei "cani schiacciati" diventerà la prima, la più grande, la maestra di tante giornaliste venute dopo. Paolo Poli l'ha inserita nei suoi "Sei brillanti", lo spettacolo del 2006 dedicato a quella sparuta galleria di penne speciali che con pochi tratti, con un aggettivo in apparenza svagato a illuminare l'intera frase, sanno comunicare un'epoca. 


Dalla sua, di penna, sono usciti ritratti, consigli di bon ton, suggerimenti di lettura. E il resoconto quotidiano dell'italietta orba che non si accorgerva del fascismo montante.
Misconosciuta, Irene Brin. Forse per invidia, per supponenza, per lo snobismo (e anche lei era snob, eccome) che è dei salotti letterari e dei giornalisti, ma non solo. Adesso la personalità complessa e inquieta, la donna il cui "camaleontismo sembra non trovar confini in nessuna legge della natura", come disse l'amico Indro Montanelli, viene raccontata dalla giornalista Claudia Fusani in "Mille Mariù" (Castelvecchi, pagg. 278, euro 22), che esce in contemporanea alla riedizione di "Olga a Belgrado", lo stupendo libro da inviata di guerra, nel 1941, al seguito del marito Gaspero del Corso, ufficiale della Compagnia Lanciafiamme (Elliot editore, pagg. 186, euro 16.50).



 
Irene Brin ritratta per Vogue




 

Diceva dei suoi esordi: «Cominciai prestissimo, a Genova, dove mio padre faceva parte di una società marittima. Scrissi un pezzettino, lo spedii al capo-ufficio pubblicità che in quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimo maschio. Sarà di buon umore, pensavo, e lui magari si strappava i capelli. Però l'articolo non lo strappò ed apparve. Ben presto tutte le collegiali liguri (o lombarde) si dedicarono ai cani schiacciati...».

Della capacità di questa giovane autodidatta, che la madre aveva ritirato da scuola ancora al ginnasio prevenendo le leggi razziali, che leggeva un libro al giorno, anche nella vasca da bagno, e parlava cinque lingue, si accorge Giovanni Ansaldo, all'epoca caporedattore, poi direttore de "Il Lavoro". Le affida la chiusura dei bagni lungo corso Italia, e il mesto rito dei bagnini che danno l'arrivederci alle signore. Lei firma Marlene ed è una rivoluzione: in quella cronaca acerba, Ansaldo intuisce la capacità di introspezione psicologica, l'attitudine a guardare nelle pieghe della società che cambia. Da allora l'effimero, il superfluo, il costume e i suoi capricci, acquistano diritto di esistenza in un quotidiano politico come "Il Lavoro" e i redattori blasonati si ritrovano a contendere gli spazi ai cani schiacciati.


Nella sua vita breve - muore il 29 maggio 1969, a 58 anni - Irene Brin ha scritto per dodici quotidiani, dal "Lavoro" al "Corriere della Sera" passando per "Il Messaggero", "Il Giornale d'Italia", "Il Mattino" e "La Stampa", ha tenuto rubriche in trenta settimanali, tra cui, oltre a Omnibus, "L'Europeo" e il concupito "Harper's Bazaar". Ha scritto manuali di galateo e pagine di guerra, ha curato centocinquanta traduzioni. Si è inventata nomi e stili, testimoniando, in un minuzioso e accurato diario minimo, trent'anni di vita italiana attraverso salotti, vestiti, vacanze, debolezze e vizi, musica e romanzi. Negli anni del regime fascista non si è occupata di retorica e di leggi razziali, pur con la mamma ebrea, ma ha seguito le donne e la loro modernizzazione, la moda e il tempo libero, attenta a quello che accade dall'estero, siano libri o gelatine, artisti o chirurgia estetica. Sempre curiosa, trasgressiva, cosmopolita e provinciale, una raffinata esteta che non ha avuto paura di essere e passare per semplice.


Con il marito, omosessuale, ha un rapporto sodale e solidale, cementato dalla cultura e dagli interessi artistici. Si conoscono nel febbraio 1935 nel salone dell'hotel Excelsior, in via Veneto a Roma: lei è vestita di lamè bianco, lui le parla di Proust. Si sposano nell'aprile dopo. Insieme aprono in via Sistina la galleria "L'Obelisco", che diventa il baricentro delle avanguardie artistiche europee e d'oltreoceano, esponendo per la prima volta sconosciuti Burri, Matta, Vespignani, Music, Afro e artisti ospiti come Bacon, Picasso, Kandinsky, Dalì. Arte e moda si mescolano, l'haute couture trova spazio tra quadri e statue.


Speciale il suo rapporto con Longanesi, di cui si rivendica un'«invenzione». «So adesso - confessa nel 1957 - che il primo segno di stima me lo diede con le prime violente correzioni. Era una biografia della Duse che mi tornò zebrata di cancellature e rimproveri... Eravamo appena all'inizio della mia educazione». L'Arcitaliano le spiega politica e letteratura, arredamento e religione, cultura e società. Le corregge lo stile, la colloca nei diversi ruoli e nomi (anche Adelina, con cui firma certe cronache di massaia): «Longanesi non si limitava a rewrite i miei articoli, ma me. Scoprivo di non aver mai saputo, nè visto, nè inteso niente».
Camilla Cederna, che non l'amava, nel 1992 riconosce che bastò quell'iniziale mezza colonnina sul "Lavoro" per fare di Irene Brin "la prima giornalista italiana", in un'epoca in cui la donna, tuttalpiù, "dalle pagine di violacei rotocalchi, indirizzava le lettrici sul taffetà celeste per una bella coperta da letto". «Fu la prima - scrive Cederna - a intuire e a bollare, con penosa amarezza, e soprattutto a scriverne, le meschinerie delle mezze calze, degli arrampicatori, i piccoli giochi d'equilibrio degli arrivisti, le ipocrisie e le stupide astuzie del generone. Era modesta, aveva una grande dignità, era discretissima, non si rendeva conto di essere stata, nel giornalismo italiano, non solo femminile, una maestra, un esempio, una pioniera. Nessuno l'ha mai sentita parlare di sé, altro che sorvolando o ridendo».
Lo fece anche la notte prima di morire: «Devo fare un viaggio».
twitter@boria_a

"Mille Mariù" di Claudia Fusani

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