martedì 9 febbraio 2021

 L'INTERVISTA

 

Diego Marani e Trieste, la sua città celeste

 

 

Diego Marani

 

 

“Non pensavo che si potesse piangere per una città. Ma allora non sapevo che le città sono donne e che anche di loro ci si può innamorare e non dimenticarle mai”. Sono righe dalle prime pagine del nuovo libro di Diego Marani, pluripremiato scrittore ferrarese, direttore dell’Istituto di cultura italiana di Parigi, che oggi si occupa di diplomazia culturale per l’Unione europea. La città di cui parla è Trieste, dove Marani studiò e si laureò alla Scuola interpreti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando l’istituto si trovava in via d’Alviano e agli studenti fuori sede, che per la prima volta mettevano piede sul confine, si schiudeva un mondo sconosciuto, solo vagamente sfiorato dai libri di storia del liceo: l’avamposto italiano così poco italiano, dove convivevano esuli e sciavi, prima della sconfinata e incombente landa comunista.


Marani la chiama “La città celeste” (La nave di Teseo, pagg. 199, euro 17, in libreria dall'11 febbraio), titolo di questo luminoso, lieve e malinconico diario degli anni universitari a Trieste, un passaggio all’età adulta segnato da tante scoperte, da amicizie inossidabili, e dall’amore travagliato e smisurato dei vent’anni per una donna, che finisce per identificarsi con la città stessa e con le sue tante anime. La città che è sempre in bilico su un confine che non esiste più ma che continua a inventarsi, la città-passaggio, con la sua eterna promessa di altrove.

 


 


«Venivo da Ferrara, piccola, semplice, lontano dai confini. Era facilissimo essere italiani a Ferrara - racconta Marani -. A Trieste ho scoperto un groviglio di confini. Quello politico, perchè allora c’era il comunismo dall’altra parte, poi quello linguistico e quello geografico. Per me Trieste è stata questo: il risveglio alla complessità del mondo. E l’incontro con la ricchezza, la diversità, la varietà. È vero che la città allora era in sospeso: c’era la chiesa serba ma non c’erano i serbi, c’era la chiesa greca ma non i greci. Però queste presenze ti facevano riflettere su un mondo che non esisteva più, ma di cui si conservavano ricordi e una tradizione».


Lei arriva nel ’78. Qual è stata la prima impressione? «L’Oriente. Scendendo in stazione Trieste mi sembrò una città levantina. Non sapevo che tre quarti della gente che vedevo era jugoslava. Fuori era pieno di bancarelle, di donne con i sottanoni, e io pensavo che quella fosse Trieste, che quelli fossero i triestini. Due cose mi colpirono. Era novembre e c’era il sole, da noi invece avevamo la nebbia già da un mese. E i colori, gli odori».


Lo scrive nel libro: il confine è un luogo, un odore, un’inquietudine... «I primi tempi mi sembrava quasi di sentirlo. Mi dicevo: deve essere là, appena dietro quella cresta di monti, la carta geografica parla chiaro. E provavo la sensazione di essere stretto da questo confine impellente, allora lo si avvertiva, di là c’era la guerra fredda. Non avevo mai sperimentato niente di simile, venivo da un posto lontanissimo da qualsiasi frontiera. Poi ho scoperto che in realtà era un confine aperto, che si andava di qua e di là».


Le “due città” le incontra nella sua prima casa, da affittuario dai signori Cotiga... «Anche questo mi confondeva. Non sapevo della presenza slovena in città, degli italiani sloveni. E i profughi non riuscivo a distinguerli, mentre i triestini capivano subito se avevano a che fare con un istriano. Nella mia prima casa in via Maiolica sentivo il risentimento che pesava sull’animo dei due anziani proprietari, che era molto di più del dolore della guerra. Era come un astio, un’ombra che incombeva su di loro, perchè oltre alla guerra c’era stato l’esilio, un figlio morto. Trieste era tutto un contrasto, ovunque mi muovessi ne incontravo uno. A Ferrara all’epoca la società era molto positiva, si respirava uno spirito di fiducia nel futuro, di crescita. A Trieste questo non esisteva, era tutto fermo, la sfiducia e lo scoraggiamento stagnavano sulla città, che si sentiva abbandonata dall’Italia e da Roma. Per me era inconcepibile, non capivo perchè non ci si scuotesse, non si andasse avanti».


Si pentì della scelta? «Mai, perchè solo a Trieste esisteva una Scuola interpreti che dava la laurea. Le altre erano scuole private, carissime e molto meno quotate. Poi ero incuriosito, mi sembrava un altro pianeta e mi sono appassionato a cercare la chiave per entrarci».
Lei viene a studiare lingue e scopre il bilinguismo.
«Il concetto mi era del tutto estraneo, non capivo neanche come potesse funzionare, che ne so, uno dice una parola in una lingua poi in un’altra... Da noi si parlava il dialetto, ma c’era un gradino sociale, uno scarto, tra chi lo usava e chi si esprimeva in italiano. E oltreconfine non sapevo che le sei repubbliche avessero lingue molto diverse, pensavo parlassero tutti serbo-croato, e facevo arrabbiare i miei amici sloveni. Poi un’assurdità: alla Scuola interpreti studiavo inglese e francese e ho tentato l’olandese, che non c’entravano niente con Trieste, non mi servivano per capire la sua realtà. Erano pochissimi a studiare sloveno o serbo-croato, sembravano un clan, si intendevano fra di loro, si preparavano a lavorare nel mercato locale».


Lei dice: le case segnano le nostre esistenze. Ci racconti quella di via San Nicolò 10... «Mi ha segnato profondamente. Era una specie di comune, in un posto meraviglioso della città, anche se allora il centro era cupo, buio, lì vicino c’era la Sip e centinaia di militari la sera venivano a telefonare. Non era la Trieste gioiosa e ridente di adesso. Però la casa era una parentesi di libertà assoluta, da noi dipendeva tutta l’organizzazione, dallo studio alla vita domestica, e invece di piombare nell’anarchia e nel disordine siamo riusciti a mettere in piedi, pur nella confusione della gioventù, un qualcosa che funzionava. Ci sentiamo ancora con quei quattro, cinque che hanno vissuto in via San Nicolò, abbiamo una chat e parliamo ogni giorno, siamo rimasti amici. La nostra scuola aveva questa particolarità, a parte gli sloveni tutti venivano da fuori ed eravamo molto legati perchè avevamo gli stessi problemi».


Arriva anche l’amore, prima Vesna, poi sua sorella Jasna. «Mi innamorai di loro e di questa città segreta, questa gente che si nascondeva, che era lì ma non si vedeva. E più avanzavo nella mia scoperta della componente slovena, più conoscevo nuove cose, il teatro, la Glasbena Matica. Mi sembrava una chiave per entrare nell’altro mondo oltreconfine, in quell’oriente che mi si affacciava e mi pareva arrivasse a Vladivostok nel giro di uno svincolo di autostrada. Lo sloveno, però, non l’ho mai imparato».


Lei ha cambiato i nomi di tutti ma Jasna e Vesna si riconosceranno di sicuro... «Sono rimasto in contatto anche con loro, sanno del libro. Tutti i personaggi si riconosceranno e saranno riconosciuti. Era inevitabile. La nostra squadra di calcio, i Barbarians, se la ricordano tutti a Trieste».


Le è servita questa esperienza per la sua carriera? «Certo. Il passare da una lingua all’altra, il non essere se stessi solo in una lingua, è la chiave di tutta la mia scrittura. È l’inizio del mio libro più importante, “Nuova grammatica finlandese”, e continuo a tirarmelo dietro. Questa è la chiave dello spirito europeo. Quando riusciremo ad abbandonare l’idea che apparteniamo a una sola lingua e a una sola cultura, e a pensare che possiamo passare da una lingua a un’altra e appartenere a lingue diverse, allora avremo creato l’identità europea. Saremo maturi come cittadini europei quando capiremo che le lingue non appartengono a un governo, a uno stato, a un’accademia. Io parlo benissimo francese e rivendico la mia “francesità”, la lingua dei francesi per il semplice fatto che la parlo diventa anche mia e, parlandola, ho diritti su questa lingua. Lo stesso vale per tutti i triestini che non sono sloveni ma si mettono a studiarlo e così diventa loro tutto il modo legato a quella lingua. È un atteggiamento reciproco, ognuno deve essere pronto ad aprirsi a un’altra lingua, ma anche il mondo che quella lingua la parla deve abituarsi ad accettare questa diversità».


Perchè Trieste è la sua città celeste?
«Per tante cose. Per il sole d’inverno, per la bora che rende il cielo azzurro ed è stata la prima scoperta. La città celeste è Gerusalemme, ma per me è Trieste la città sacra della mia giovinezza, dei miei vent’anni che io immagino siano ancora lì, intrappolati come un fossile nelle dolomie. Cerco di tornarci sempre in treno, mi affaccio dal lato costiera, poi dal lato monte dove c’è la casa di Vesna e Jasna. Ho tutti i miei ricordi, intatti, sparsi in quel tragitto. E mi commuovo». 

@boria_a

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