lunedì 22 luglio 2024

MODA & MODI

 J. D. Vance, Carola Rackete, Ilaria Salis

L'estate di barbe e peli al potere

 

Meno male che è arrivato J.D. Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza degli Usa, a farci dissertare sulla sua barba e, peggio, sul presunto uso della matita nera intorno agli occhi azzurri per infondere solennità alla sua faccia rotonda da ragazzone cresciuto a cibo spazzatura e riscattato dal sogno americano.

La sua autobiografia (da leggere, davvero, e all’inizio molto apprezzata dai liberal, che vedevano nell’autore, di una famiglia marginale immigrata dai Monti Appalachi verso la rust belt, la cintura industriale, e poi laureato a Yale, la prova vivente del successo delle loro battaglie) si intitola Hillbilly Elegy, perché hillbilly, gente di collina, erano chiamati dispregiativamente i poveracci bianchi delle classi rurali, immigrati di origine irlandese o scozzese, privi di istruzione. Bifolchi, insomma, o red neck, colli spellati dal sole, o white trash, spazzatura bianca.


                                          Nel 2017 ai tempi del successo repentino di Hillbilly  Elegy


J. D. Vance alla Convention repubblicana di Milwaukee - Evan Vucci /Ap


Meno male, appunto, che si è appalesato Vance, con la sua barba disciplinata, perché altrimenti il dibattito estetico-politico-vestimentario dei sonnolenti mesi estivi, tra saldi imperdibili e future tendenze, si sarebbe incagliato sugli scontati outfit delle neofite europarlamentari Ilaria e Carola.

 Le statistiche sulle barbe alla Casa Bianca stanno appassionando i giornali: riassumendo, se Trump ce la farà, il numero due del ticket sarà il primo barbuto dal 1893, quando terminò il mandato il presidente Benjamin Harrison. Tutta la galleria dei presidenti dell’Ottocento è popolata di barba e baffi, poi si preferirono candidati che l’elettorato potesse guardare a viso aperto e scoperto. 

Tuttavia, l’idea di conquistare gli Stati in bilico con il “proletario“ Vance ha fatto superare a Trump la proverbiale pogonofobia, l’avversione per i peli facciali, che provava anche Silvio Berlusconi, al punto che The Donald si è avventurato a paragonare il suo vice a un giovane Abraham Lincoln. Su matita e forse addirittura kajal il tycoon non si è pronunciato, ma è noto che per se stesso non disdegna la doratura di fondotinta e spray abbronzanti, esattamente come il fondatore di Forza Italia faceva con il make up che gli regalava quel pastoso e omogeneo incarnato da Muppet.

 

(leggi la recensione a "Elegia americana" su questo blog)

IL LIBRO

Elegia Americana, con J. D. Vance

dentro l'America dei perdenti

 

Di un’altra forma di irsutismo hanno parlato i giornali italiani di area conservatrice, commentando l’immagine della neoeletta in Europa, la tedesca Carola Rackete, immortalata accanto alla collega Salis in scarpe da ginnastica nere, vestito arancione e nessuna preoccupazione per l’esuberanza pilifera dei polpacci.

 

Carola Rachete, Mimmo Lucano e Ilaria Salis a Strasburgo

 

Poco sapido il commento della leghista Susanna Ceccardi, già nota per la campagna elettorale basata sulla comparazione estetica con le avversarie. Quel “pronte per la fashion week” ha scatenato ancora una volta l’indignazione della rete al grido di body shaming, tema sensibilissimo e trasversale. “Quando ci mettiamo un vestito diciamo quel che siamo e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la propria identità sul corpo…” dice il semiologo triestino Ugo Volli.

 

E Rackete e Salis hanno interpretato filologicamente. Scarpe da ginnastica, zaino, zeppe di corda e capi anonimi e quotidiani, sono il messaggio che le due europarlamentari trasmettono: portiamo avanti le nostre battaglie anche qui, restiamo quel che siamo e siamo state, nessun compromesso e soprattutto non abbiamo vinto un jackpot. Ilaria si è spinta oltre, evidenziando una propensione a magliette semi-crop che le lasciano scoperta solo una fascia lattea di addome, appena sopra l’ombelico, tra jeans e gonne. La “body hair positivity” per la Gen Z esprime libertà nei confronti della “norma di genere” che alle donne impone la depilazione, ha dunque un contenuto politico. La pancia al vento dentro il Parlamento europeo sortisce l’effetto opposto: toglie alla politica, nel senso di persona fisica, il contenuto.

lunedì 8 luglio 2024

MODA & MODI

 L'ombelico va in ufficio 

 



 

È appropriato lasciare l’ombelico a vista al lavoro? La risposta sembrerebbe scontata, ma l’interrogativo mi si è parato davanti qualche giorno fa, in centro a Trieste, osservando l’addetta di un’agenzia immobiliare al piano marciapiede, in jeans e pancia scoperta. Nella stagione che si inorgoglisce dell’aver cancellato i codici, giocoforza ci affidiamo a un sostantivo scivoloso come «appropriatezza» per cercare di argomentare sulla questione. Quanto mini può essere appropriata una minigonna in ufficio? La faccenda ha impegnato in questi giorni i lettori del New York Times in un’accesa discussione, moderata dalla prima firma della moda, Vanessa Friedman, che si è spinta a scomodare un’esperta del Fashion Law Institute della Fordham University, Susan Scafidi: nessuna limitazione di centimetri può essere imposta per legge, ha detto l’interpellata.

Ovvio: la contropartita è essere pronte ad affrontare il giudizio delle persone e abituarsi all’idea di essere valutate più per quello che si indossa che per quello che si è o si fa, come accadeva nella serie tv degli anni Novanta Ally McBeal, avvocatessa in gonnelline estreme e tacchi a spillo. I pro e contro ci sono da entrambe le parti: irrita che i vestiti siano un metro di giudizio per liquidare le donne come decorative e irrita altresì dover mortificare la libertà di mostrarsi per provare di avere un cervello. Alla fine i commentatori sono arrivati a un compromesso onorevole: fatta salva la valutazione sull’ambiente di lavoro in cui ci si muove, se la minigonna è indossata con disinvoltura, senza tirarsela giù a ogni movimento, magari con un paio di calze spesse ed evitando di scervellarsi su che cosa gli altri ne penseranno, allora si possiedono abbastanza assertività e confidenza nel proprio corpo da portarla. E magari farla pure diventare uno strumento di empowerment, di autoaffermazione.


Ma l’ombelico al vento? Qui non si tratta di centimetri di tessuto, ma del corpo scoperto, che dalla notte dei tempi segnala pericolo e tentazione. Un altro dibattito sull’autorevole quotidiano americano è sceso al piede: nudo al lavoro si può? Leggi in materia non esistono, i codici di abbigliamento delle varie società sono spesso opachi e interpretabili, quindi che fare? Tra i negazionisti più estremi e i feticisti a oltranza, vale ancora la via di mezzo: la slingback, scarpa aperta con la cinghietta sul tallone, preferita da Anna Wintour, incornicia la nudità e la rende meno esposta.


Ma non eludiamo il punto di partenza: l’ombelico. Qui non c’è niente da incorniciare o schermare. O sì o no. Intergenerazionale, protagonista dell’onda libertaria post pandemia, esiste solo lui, al centro di una pancia più o meno tesa. E allora, se non ci sono codici interni - che comunque danno sempre la sgradevole impressione che il dipendente debba essere “guidato” - bisogna avventurarsi su un terreno ancora più insidioso dell’appropriatezza. Sono credibile vendendo una casa con la pancia all’aria? Se il problema non si pone per la barista che mi porge il caffè in shorts-mutanda e unghie ad artiglio, certamente “inappropriata” all’ambiente, in un luogo dove è d’obbligo instaurare un rapporto di fiducia con l’interlocutore, l’ombelico è ingombrante? La risposta, dicevamo all’inizio, non è scontata. Ma la domanda sì.