sabato 27 aprile 2024


 MODA & MODI è diventato un libro!

 


 


«Dammi solo un armadio gigantesco!» diceva Carrie Bradshow a Mr Big, nel primo film della serie Sex and the City. E già, l’armadio gigantesco è un ottimo palliativo rispetto a un diamante. Ogni abito un’epoca, ogni veste un simbolo, è il modo in cui ognuno si rappresenta. Ed è alquanto stupido pensare siano vezzi superficiali. Come diceva Meryl Streep nei panni di un’esplicita Anna Wintour (“Il diavolo veste Prada”): è stravagante quanto sia assurdo confondere il “prendersi sul serio” con una chiara avversione alla moda. Oltre al fatto che procura innumerevoli posti di lavoro. Perché la moda non esiste solo negli abiti. Sta nelle idee, nel nostro quotidiano come sulle passerelle più ambite, dice ciò che viviamo e cosa sta accadendo.


Moda come «tradizione e rivoluzione, del suo essere specchio di desideri, ambizioni, contraddizioni e rappresentazioni». È la frase che chiude la premessa di “Moda & Modi 1991-2021” (Battello Stampatore, disegni di Ugo Pierri, pagg. 147, euro 16) della giornalista Arianna Boria, da sempre attiva sul campo, a iniziare dalla rubrica omonima che tiene da oltre 30 anni sul Piccolo.
Articoli, di cui il libro raccoglie una selezione, che tracciano la storia del costume degli ultimi tre decenni, non solo quella dei più grandi stilisti. Attraverso le tendenze Boria ci restituisce arte, costume, sociologia e politica. Insomma, un affresco sociale che dribbla tra leggerezza e profondità e guarda dritto al nostro rapporto con il mondo. Se per esempio un tempo il lifting veniva temerariamente nascosto, oggi si sbandiera: «l’aggiustatina è materia da salotto». D’altra parte basta aprire un qualsiasi social per assistere a sfilate di labbra-canotto e guance di marmo.


Nel giro di un decennio si è passati dalla censura all’esibizione. «Così come Carla Bruni – scrive sempre Boria – non si è fatta un problema, in abito azzurro Roland Mouret e capezzoli in vista, a sedersi accanto all’allora presidente russo Dimitrij Medvedev e consorte». Di esami alle first lady ce ne sono parecchi, dagli “scrunchie” di Hillary Clinton al repulisti del nuovo guardaroba da candidata alla Casa Bianca. E poi ancora Michelle Obama o la stupenda collezione di spille dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright.


Le spille e il loro rapporto con le donne di potere è un capitolo a sé, ma certo “Moda & Modi” non risparmia niente e nessuno, in forma ironica e corrosiva ci mostra carenze e ipocrisie (anche) politiche a partire dal look. La mini ad esempio, la gonna più trasversale dell’immagine femminile, è di destra o di sinistra? E la t-shirt sotto la giacca? (a sdoganarla ci ha pensato Berlusconi, mentre Bossi l’ha fatto con la canottiera)? E a proposito di maschi e moda, in una rubrica datata 1995 leggiamo: «Come sarà il maschio della prossima stagione estiva? Le sfilate non lasciano dubbi: disossato. Finiti doppi o monopetti, sia quello mortifero di Berlusconi che quello da usciere di D’Alema. Sepolti vivi».
Ogni metafora è lecita. A metà degli anni ’90 la virilità era andata fuori tempo. Era il momento dell’androgino e delle giacche slim. Forse uno strascico degli ’80, quando gli uomini si truccavano e gli eccessi – anti ideologici – sembravano più autentici. Sempre all’interno di una scrittura dissacrante, tra Sedaris e Bennet, non mancano gli orrori: «Una camicia hawaiana, la penna stilografica nel taschino, il blazer con lo stemma, i bermuda, la camicia da cow-boy. Tra gli accessori, il borsello merita la bocca dell’inceneritore...». Così come andrebbero incenerite le Birkenstock nobilitate, che sempre ciabattone pannoniche restano. Da bruciare, nel 2014, anche il format di Project Runway Italia su FoxLife, dove «Gli abiti non hanno fatto più storia dei concorrenti».


I tacchi, si sa, tradiscono un modo d’essere (Monroe o Hepburn docet), mentre i gusti delle nuove generazioni si misurano sui centimetri degli shorts. Ma pure nella sfida tra Barbie e Bratz, bambole che rappresentano scelte di campo.


Un percorso cronologico all’inverso, dall’inizio della rubrica, il 1991, fino al 2021, dove non mancano considerazioni sulla neo-austerity di stile post pandemia. Trent’anni di storia del costume da una prospettiva particolare: «Una città – scrive l’autrice – che ha dato i natali o ha adottato celebri designer (Renato Balestra e Raffaella Curiel, Ottavio Missoni e Mila Schön), ma dove di moda non si è mai prodotto niente. Una città che implacabilmente tende a vestirsi sempre nello stesso modo, pratico e impersonale». Anche se lo stile, come diceva Lord Chesterfield, è l’abito dei pensieri.


Mary Barbara Tolusso

 


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