sabato 16 settembre 2017

IL LIBRO

Aramburu, quanto dolore per quella patria 





Una guerra che spacca paesi, comunità, famiglie. Che lacera amicizie, annienta intimità, corrode il tessuto sociale. La violenza brutale delle bombe e del fuoco, col suo strascico di morti ammazzati sulle strade. E la violenza sotterranea delle intimidazioni, delle delazioni, dell’indolenza e dell’indifferenza, che si propaga come una metastasi in un piccolo mondo chiuso. L’Eta, in quarant'anni di terrorismo nazionalista basco, ha eliminato gli uni, quelli non arrendevoli, non fiancheggiatori, non simpatizzanti, e ha diviso gli altri: sparato ai nemici e condannato chi è rimasto a essere vittima, o vittima della vittima, in un circolo vizioso di dolore e rancore.

“Patria” di Fernando Aramburu (Guanda, pagg. 632, euro 19,00), è un affresco, storico e politico, della lotta degli indipendentisti. A comporlo però sono le storie minime, quotidiane, di singoli o piccoli nuclei legati da vincoli di parentela, amicizia, buon vicinato, che gli attentati investono e sconvolgono. Un libro - caso letterario in Spagna, romanzo “definitivo” come hanno scritto i critici - dal respiro grandioso, potente, ma che si sviluppa in brevi capitoli, chiusi come racconti a sè stanti, che non seguono la cronologia ma i moti dell’animo dei protagonisti, ognuno dei quali racchiude l’intero quadro. L’autore non assolve, ha ben chiare differenze e responsabilità, ma quel che gli interessa, prima ancora della testimonianza storica, della manichea divisione in buoni e cattivi, è restituire la pervasività di un dolore che è degli uni e degli altri, assassini e bersagli. E lo fa penetrando negli animi con tale dolente, delicata introspezione, che lascia commossi e conquistati.



Fernando Aramburu


La patria di cui parla Aramburu è quella di due famiglie amiche: da una parte il Txato, imprenditore, e sua moglie Bittori con i figli Xabier e Nerea, dall’altra Joxian e Miren, con i loro ragazzi Joxe Mari, Arantxa e Gorki. Gli uomini bevono allo stesso bar e vanno in bicicletta, le donne passeggiano a braccetto, i figli crescono insieme tra gli anni Settanta e Ottanta, vezzeggiati dal Txato come fossero tutti suoi. Ma quando l’imprenditore, che non si piega ai taglieggiamenti dei terroristi, dopo mesi di minacce, lettere anonime, scritte sui muri, viene ucciso sulla strada e Joxe Mari, che milita nell’Eta ed è entrato nel braccio armato dell’organizzazione, sparisce dal paese, nulla sarà più come prima, nè tra le famiglie nè intorno a loro.


Con Aramburu seguiamo la diaspora dei personaggi: Bittori lascia la sua casa, ormai isolata, il figlio Xabier, medico, si nega a qualsiasi forma di affetto, mentre Nerea, già mandata dal padre a studiare altrove, coltiva la memoria a distanza, rifiutando la pesante cappa di figlia dell’ennesimo morto ammazzato. Specularmente, Miren si radicalizza a sostegno del figlio incarcerato, Joxian piange l’amico in segreto ma non ha il coraggio di ribellarsi alla moglie, e Gorka, scrittore introverso, si allontana dalla famiglia per poter riconoscere la sua omosessualità.


Sarà infine Aranxta, ridotta in carrozzina da un ictus, la prima a ristabilire un contatto tra i due nuclei, ad aprire la strada a quel perdono che Bittori pretende prima di morire.


Ma non è il perdono, che pure ci sarà - una lettera di Joxe Mari dal carcere, un abbraccio fuggevole tra Bittori e Miren - la parte migliore del romanzo. È lo scavo nell’animo dei personaggi e nel mondo che li circonda, nelle zone grigie che permettono all’odio di crescere e alimentarsi: l’acquiescenza della Chiesa, i ricatti indiretti, la brutalità sottotraccia di un mondo rurale che fa il vuoto intorno, che imprigiona con codici elementari - la chiacchiera, il saluto negato, il voltare le spalle e cambiare marciapiede, il silenzio che cala al bar all’ingresso del reietto - chi tenta di liberarsi.


Il romanzo inizia con l’annuncio della fine della lotta armata da parte dei terroristi. E termina mentre le idropulitrici cancellano le scritte a sostegno dell’Eta sui muri del paese, quando Nerea dice al fratello Xabier: «Alla fine vince sempre l’oblio». E lui: «Ma non c'è motivo per cui dobbiamo diventare suoi complici».


Questo è il messaggio di un libro che entra nel profondo del lettore: la fatica della memoria è forse l'unica riconciliazione possibile.

@boria_a

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