martedì 9 agosto 2022

MODA

 

Addio Issey Miyake 

e la magia del "Making things" 

 

Issey Miyake (Hiroshima 22 aprile 1938, Tokyo 5 agosto 2022)



 Si intitolava “Making things” la splendida mostra delle sue creazioni aperta nell’ottobre 1998 alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi e in quella definizione “in divenire”, concreta, tattile, rivolta al futuro, c’è il senso di tutto il mondo di Issey Miyake, uno dei più importanti stilisti e designer del Novecento, morto il 5 agosto a Tokyo a 84 anni per un cancro. Abiti che in quel contenitore di cristallo fluttuavano, si gonfiavano, vibravano, sembravano contrarsi e distendersi, seguendo i mille, imprevedibili percorsi delle pieghe.

 

"Making Things", Parigi, 1998-1999



L’hanno definito “il sarto del vento” (detestava essere definito stilista e preferiva chiamarsi “disegnatore di vestiti”), ma è il tessuto plissettato, e le sue infinite soluzioni, una delle cifre che identificano il lavoro di Miyake e lo rendono immediatamente riconoscibile anche chi non pratica la moda. La sua linea “Pleats”, mandata per la prima volta in passerella nell’89, aveva conquistato le strade e i musei: creazioni geometriche, da sovrapporre, frutto di una coerenza indifferente agli stravolgimenti stagionali. Nel ’93 aveva lanciato “Pleats Please”: vent’anni di sperimentazione su tessuti e proporzioni si traducevano in involucri senza confini geografici o temporali, per donne a ogni latitudine, “creazioni” pronte a essere appallottolate in una borsetta, strapazzate dalla centrifuga, indossate senza essere mai state sfiorate da un ferro da stiro o aver perso una goccia di colore. «Il design - diceva - ha il potere di destinare i vestiti a tutti, piuttosto che limitarli alla cena di gala di quattro persone». Su questa ricerca di linee, su questa disciplina dell’armonia e della misura, raffinata al punto da aver ridotto al minimo bottoni e cuciture, aveva innestato l’utilizzo delle tecnologie e la sperimentazione di materiali: poliestere, fili metallici, carta di riso, bambù, seta e caucciù mescolati assieme.

 

 


 


Era nato a Hiroshima il 22 aprile 1938 e a sette anni aveva vissuto l’orrore della bomba atomica. Sua madre, gravemente ustionata, sarebbe morta pochi anni dopo. Laureato nel 1964 alla Tama Art University di Tokyo, Miyake si forma a Parigi negli atelier di Laroche e Givenchy, poi a New York con Geoffrey Beene, quindi torna a Tokyo nel 1970 per aprire il suo studio.

Nei successivi cinquant’anni - aveva passato la mano da tempo, ma continuava a supervisionare le collezioni e all’ultima settimana della moda di Parigi aveva ancora una volta incantato con creazioni ispirate alla natura - lo stile di Miyake non è mai cambiato, valorizzando il corpo femminile senza alcun approccio sensuale, all’insegna della libertà, dell’armonia, della sperimentazione su tecniche e tessuti. «La cosa che da sempre mi affascina di più - spiegava - è lo spazio tra un abito e il corpo, è l’utilizzo di un elemento bidimensionale per vestire una forma tridimensionale. Se guardiamo indietro, nella storia, notiamo che molte culture hanno iniziato a creare indumenti partendo da un solo pezzo di tessuto. Io volevo partire da un elemento altrettanto semplice ed esplorare le diverse possibilità, unendo artigianato, tecnologia e tessuti sempre nuovi». Il concetto di “ma”, in giapponese lo spazio tra il corpo e la stoffa, per Miyake non è mai stato un’intercapedine vuota, ma una dimensione piena di energia, da sfruttare per costruire geometrie tessili, “fluide” prima che la parola diventasse di moda.

 

A-Poc, Parigi, 1999


A-Poc al MoMa


Tradizione e innovazione si sono sempre intrecciate nella sua storia. Tutto nasce dal kimono, tagliato in un unico pezzo da uno scampolo di stoffa di lunghezza e ampiezza standard. Nel 1999 Miyake studia A–Poc, gioco di parole tra “a piece of cloth” e “epoch”: un telaio controllato dal computer produce un tubo di tessuto da cui, una volta srotolato, ciascuno può ritagliare, seguendo le linee già marcate, l’abito che vuole, come i vestitini di carta delle bambole. Per descriverlo bastano le parole che i giapponesi usano per il kimono e anche per l’acqua: «Come le onde sulla sabbia, cancella ogni segno d’età, di sesso o di tempo».
 

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