giovedì 17 dicembre 2009

LA MOSTRA

e' MilAmerica
(Mila Schön al Guggenheim Museum e al Metropolitan Museum di New York, dal catalogo della mostra “Mila e la notte” (Electa) realizzata nel 2009-2010 al Salone degli Incanti di Trieste)

Ottobre 1994, Guggenheim Museum di New York.


Il cappottino verde di Mila Schön esposto al Met nell'ambito di "Cubism and Fashion" del 1996 che fa parte della collezione del Costume Institute del Museo (foto per gentile concessione della rivista Stile arte)

Germano Celant racconta all'America quarant'anni di "Italian Metamorphosis", la rinascita post-bellica delle arti, del design, della fotografia, del cinema, dell'architettura, fino alla soglia del Sessantotto. L'ultimo piano di un percorso denso e ambizioso è invaso dai colori della moda, da quel giovane made in Italy che è riuscito, con testardaggine, dedizione e un inusuale spirito di squadra, a farsi largo nel cuore e nei gusto d'oltreoceano, prima rosicchiando, poi divorando fette di mercato all'immobile e magniloquente couture francese. Ci sono le sculture di Capucci, i pigiama palazzo di Galitzine, gli impasti cromatici capresi di Pucci, i rossi di Valentino, l'abito-cardinale delle Sorelle Fontana indossato da Ava Gardner, le zingare di Missoni e le sperimentazioni futuribili in alluminio e pelle che Germana Marucelli firma con l'artista Getulio Alviani.

 
E c'è Mila Schön, con due soli abiti della collezione 1966-'67, un anno e un'ispirazione in stato di grazia. È la presenza espositiva più contenuta eppure singolarmente rappresentativa delle ragioni del successo del gusto italiano negli Stati Uniti. Seta georgette color champagne il primo, percorso da un gioco di ricami di pietre d'oro, d'argento e cristallo che disegna un'onda lungo il corpo e apre sul fianco un finto, discretissimo, oblò. Tulle di nylon il secondo, una tunica a maniche lunghe quasi monacale, mossa da un analogo decoro a onda, acquistata da Gioia Marchi Falck. Quello di Mila è minimalismo senza privazioni, lusso senza sovrabbondanza, citazioni artistiche da intuire, suggerite piuttosto che proclamate. "The Italian Coco Chanel", scrive la giornalista del "Miami Herald", Hebe Dafney, con una definizione che probabilmente non le sarà piaciuta, tanto è distante l'ansia, e la provocazione, di liberare la donna che sta alla base della semplicità di Mademoiselle, dalla discrezione borghese che sorveglia lo stile della stilista dalmata. "Understatement colto", da agiata signora dei salotti buoni milanesi che pure sa cogliere e miracolosamente (per quanto inconsciamente) tradurre l'atmosfera del decennio, le sperimentazioni sui materiali dei Sixties, l'ansia di spostare avanti il confine della conoscenza, la ricerca e la Luna a portata di mano, l'ebollizione dei movimenti artistici, il rock e lo street-style. Mila, educata come cliente al gusto degli atelier francesi di Balenciaga e Dior, sa lasciarsi alle spalle le ampollosità, le ridondanze, le scomodità che hanno cominciato a soffocare la ricca acquirente americana, e le propone di essere elegante con una sorta di sottile asciuttezza, elegante per sottrazione.

 

10 dicembre 1996, Metropolitan Museum di New York



"Mila e la notte" a Trieste (foto Francesco Bruni)

Apre la mostra "Cubism and Fashion", creatura, forse non tra le più riuscite, dell'allora curatore dell'Istituto del Costume del Met, Richard Martin. Arte e moda, rapporto affascinante e in parte ancora inesplorato, che Martin indaga cercando relazioni, soprattutto "costruendole", tra la cultura cubista che permea i primi due decenni del secolo scorso e le innovazioni nell'abbigliamento femminile, finalmente libero dalla "tridimensionalità", dalla "volumizzazione", dall'effetto albero di natale, esemplificati in mostra da un breve assaggio degli abiti di Charles Frederick Worth. Dal cubismo, la moda assorbe un nuovo modo di vedere, rovescia la concezione del vestito, non più ornamento statico che prescinde dal corpo, ma involucro in movimento e che del corpo segue i movimenti, scomponendosi in pannelli, inserti, tagli. Braque, Picasso, Léger, Juan Gris, Marcel Duchamp, Robert Delaunay dialogano con gli abiti di Poiret, di Patou, delle sorelle Callot, di Chanel, con gli origami di seta di Madeleine Vionnet, tutti esempi, al limite della "temerarietà", della semplificazione dell'abito, delle sue nuove geometrie. Dalle nature morte sfaccettate, dagli incastri di forme, dalle sedie sghembe, dai collage, gli stilisti mutuano tagli e colori di rottura rispetto al passato, ocre terrose, rossi liquorosi, raffinati dialoghi di ori e neri, avio e creme, grigi e pesca. Un'estetica che ispira anche la decostruzione dei contemporanei, cui è dedicata l'ultima parte del percorso, e dove, ancora una volta, Mila Schön entra in mostra con una presenza minimale e intrigante. È un completo di lana della collezione 1968, donato al museo da Bernice Richard e parte della collezione permanente del Met. Abito girocollo, senza maniche, e cappottino sopra il ginocchio, in tre gradazioni di verde che s'intersecano in un gioco di quadrati, rettangoli, rombi, puntualizzato dalla chiusura a tre bottoni. I critici americani rimproverano Martin: la corrispondenza tra l'arte cubista e la sua traduzione nella moda è spesso sottotraccia. Eppure l'outfit di Mila, si intreccia con disinvoltura al filo conduttore e si presta, dal punto di vista cromatico, a diverse collocazioni lungo il percorso. Il colore, appunto. Questa palette di verdi brillanti è il primo indizio che conduce, per sensazioni, dall'ensemble sartoriale, dal due pezzi bon-ton, dal lieve divertissement di composizione-scomposizione, ai capolavori sulla tela, "La parisienne" di Delaunay, "Woman with a fan" di Picasso, secondo le più immediate associazioni visive, e poi, procedendo per astrazioni, quasi per salti, a "Queen Isabelle" di Picasso o "Still life with bottle and fruit" di Juan Gris. E se il rapporto tra il cubismo e l'ispirazione della stilista sembra labile, la scelta dell'abito di Mila si giustifica perfettamente considerando la sua educazione "al guardare", l'abitudine a trasferire liberamente nelle collezioni i segnali di altre esperienze artistiche centrate sui rapporti con lo spazio, le geometrie, le vibrazioni ottiche, come quelle di Fontana, di Vasarely, di Noland, i "mobiles" di Calder.

13 settembre, 2005. Metropolitan museum di New York

 
Una ventata di energia spazza le asfittiche sale dell'Istituto del Costume, che si aprono per la prima volta non a una vera e propria "mostra" di vestiti a tema, o a un couturier storico, ma a una parte dello sterminato guardaroba di Iris Apfel, 88 anni, icona della moda internazionale e antesignana degli assemblaggi arditi tra griffe e mercatini delle pulci. È un evento destabilizzante, voluto dal successore di Martin, Harold Koda. Irriverente Iris, rara avis, "rare bird of fashion", come titola l'allestimento, omaggio alla newyorkese del Queens di origine russa che fondò, col marito Carl, una delle compagnie tessili e d'arredamento più importanti al mondo, Old World Weavers, ma soprattutto prima donna a sdoganare il "fusion" nella moda in anni in cui abbinare Chanel a qualcosa che non fosse Chanel equivaleva a un'eresia. Dior disegnato da Ferrè o da John Galliano, Oscar de La Renta, James Galanos, Ungaro, Lanvin, Nina Ricci, Jean-Paul Gaultier, pezzi di haute couture o di pret-a-porter che perdono ogni "tracciabilità" negli abbinamenti spiazzanti, con borse e copricapi nuziali cinesi, gioielli in argento e turchese degli indiani d'America, coperte tibetane trasformate in ponchi, cinture africane, borse a forma di animale recuperate in qualche bancarella.


«I'm not a lady who lunches» è la citazione che apre una delle sezioni più raffinate, una sequenza di bianchi e neri da giorno, dove i manichini, che di Iris replicano l'accessorio inconfondibile, gli enormi occhiali tondi, mimano possibili situazioni e occasioni in cui abiti e monili sono stati indossati. È qui che troviamo un completo vintage di Mila Schön, fatto risalire in catalogo al 1967 circa, ma probabilmente della collezione 1969, anno delle intersezioni tra pelliccia e pelle. Insolita dark lady, quella firmata da Mila: stampa a coccodrillo per la pelle della gonna al ginocchio e del gilet, quest'ultimo bordato di visone. Il manichino è seduto su una sedia e appoggia le braccia allo schienale di un'altra, i piedi calzati in mocassini di camoscio color mostarda, ai polsi braccialetti di legno nero. Potrebbe essere una pausa di lavoro o un cocktail con le amiche, l'insieme, semplice e sartoriale, tra i più "datati" della mostra, è sobrio e modernissimo, sottilmente malizioso. Pelliccia e pelle, due trasgressioni che quasi si elidono, il lusso e il gioco dell'abbigliamento che viene dalla strada.


L'abito di Mila che fa parte della collezione di Iris Apfel, fotografato da Eric Boman ed esposto nel 2005 al Met di New York nella mostra "Iris Apfel, rare bird of fashion"

Conferma Iris Apfel, che in questi giorni è impegnata nell'ennesima "gemmazione" di "Rare bird of fashion", al Peabody Essex Museum di Salem, in Massachussets. I due pezzi di Mila, acquistati nella boutique in via Montenapoleone, li ha portati per anni e li porta ancora, e così le decine di altri capi della stilista che possiede, soprattutto abiti corti, giacche, pantaloni di lino e di lana, e il suo preferito, una mise da sera con decori infinitesimali di pietre e paillettes.
Mila Schön era tutto quello che il completo scelto per la mostra sintetizza: qualità dei materiali, tecnica di lavorazione, senso del taglio "architettonico" dell'abito. Non vintage, mi corregge, "timeless". 

twitter@boria_a



La stilista dalmata Mila Schön

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