sabato 14 luglio 2012


L'INTERVISTA

Marina Abramovic, niente jeans ma  divise russe



Marina Abramovic con lo stilista Riccardo Tisci 

La giacca di centouno pelli di serpente, cucita dall’amico Riccardo Tisci, direttore creativo di Givenchy, per la festa conclusiva della sua performance al Moma di New York nel 2010, “The artist is present”, ce l’ha ancora.
Uno di quei capi, non molti, da cui Marina Abramovic non riesce a separarsi, nonostante i periodici “alleggerimenti” del guardaroba, legati agli spostamenti e al succedersi delle fasi creative della sua vita. «Riccardo - racconta - si è ispirato a un mio lavoro del passato con i serpenti e ne è uscito questo pezzo di haute couture incredibile, per me preziosissimo. È unico, l’ha fatto per sorprendermi. Continuo a indossarlo e continua anche la nostra collaborazione. Adesso lavoriamo a una versione del “Bolero” di Ravel, la prima completamente diversa dopo quella di Béjart, per l’Opera Garnier di Parigi, con i coreografi belgi Sidi Larbi Cherkaoui e Damien Jalet. La premiere sarà il 1° maggio del prossimo anno. Tisci firma i costumi, io “concept” e scenografia».

  

Marina Abramovic, la più famosa performance artist al mondo, è a Trieste, invitata a far parte della giuria fashion dell'undicesima edizione di ITS. Arriva dalla Francia, dopo un periodo di vacanza. «Là solo t-shirt e pantaloni, tutto bianco e nero. Cosa mi metterò? Grosso problema. Penso un mix di Tisci e Costume National, tra i miei preferiti». Chiarissime le idee su cosa cercherà nelle collezioni degli aspiranti stilisti: «Armonia ed equilibrio».



Marina Abramovic  firma l'albo degli ospiti eccellenti del Comune di Trieste

Dopo la fine del suo matrimonio, lei è andata alle sfilate di Parigi. Moda terapeutica? «No, amavo la moda già da molto tempo. Il mio primo capo importante l’ho comprato appena finita la camminata lungo la Grande Muraglia, nel 1989. Era uno Yoshji Yamamoto, finalmente avevo i soldi e potevo permettermelo. Ma non c’entrano i rapporti affettivi, l’ho fatto per me stessa».

 
E il vestito rosso che indossava al Moma, chi l’ha disegnato? «Una mia idea. Erano tre: uno blu scuro per la calma, uno bianco come la purificazione, e uno rosso per la forza. I concetti chiave della performance. Il colore si connette alla mia energia interiore, è molto importante. Avevo bisogno di qualcosa di ampio e confortevole, dalle linee semplici. E caldo, infatti gli abiti sono in lanae cachemere».

 
Invece i costumi del suo ultimo spettacolo, la messa in scena della sua vita e morte, per la regia di Bob Wilson? «Jacques Reynaud, uno stilista italiano, fantastico, che da decenni collabora con Wilson. I suoi genitori lavoravano per la Scala di Milano, suo padre Alain ha disegnato gli abiti per Maria Callas, ha ancora tutto l’archivio della cantante».

 
Lei è cresciuta nella Jugoslavia di Tito. Le piaceva lo stile di Jovanka, il socialismo “glam”? «Lo odiavo. L’aspetto più interessante di quella moda erano piuttosto le uniformi, davvero eleganti. Anch’io ho l’attitudine all’uniforme, qualcosa che identifica. Mi piacciono quelle della Rivoluzione russa, guardo alle immagini di Rodchenko. Sono fonti di ispirazione per il mio lavoro, che ho portato nell’Abramovic Method, dove i partecipanti indossavano tutti lo stesso grembiule bianco».

 
Mai sognato un paio di jeans, magari comprati a Trieste? «Non ho mai avuto, nè portato, nè amato i jeans. Questa ossessione non è mai stata la mia. Piuttosto avevo quella del cinema anni ’60: Sophia Loren, Claudia Cardinale, Monica Vitti e i film di Antonioni. Il “pocket dress”, non i jeans, “americani” e molto volgari».

 
Sua madre adorava la modafrancese. E lei? «Direi che ne era ossessionata. Ammirava la semplicità e l’eleganza. Lei aveva un guardaroba superbo, perchè si faceva fare gli abiti copiando i modelli dalle riviste francesi. Era una persona pubblica, aveva spesso incontri con politici, manon le piaceva lo stile semplice e ufficiale delle uniformi: gonna, camicia e giacca. Se le inventava da sè, ispirandosi alla moda francese. A me quel mondo non interessava».

 
Adesso Marina Abramovic ha un’icona della moda? «No. Funziona come per l’arte. Non mi sono mai ispirata a un altro artista, perchè l’artista è, a sua volta, sempre ispirato da qualcos’altro. La moda la creano i designer, non le persone che la indossano e si limitano a mettere insieme pezzi diversi. Mi interessano i creativi rivoluzionari, che inventano nuovi stili guardando il corpo».

 
Anche lei odiava la moda negli anni ’70 come tutti gli artisti impegnati?
«Assolutamente. Vestivo nel modo più semplice possibile, pantaloni, scarpe basse, capelli corti e niente trucco. Pensavo che la moda fosse qualcosa di decadente e volgare».
E quando si è sentita autorizzata ad amarla?
«Dopo la Grande Muraglia, dopo aver camminato per 2.500 chilometri. Mi sono detta: oddio, adesso voglio farmi crescere i capelli, mettermi i tacchi, vestirmi elegante. Nel film di Wim Wenders, Yamamoto dice che se entri nella stanza di una persona che dorme e guardi nel suo armadio, puoi subito capire se è un architetto, un panettiere, un minatore. Gli abiti ti definiscono. Attraverso la moda puoi essere quello che vuoi. È stato veramente liberatorio per me scoprire la magia di cambiare un abito e cambiare personalità. Una volta hanno chiesto a Issey Miyake perchè fa abiti così grandi. E lui ha risposto: perchè voglio che tra il corpo e il tessuto, lo spirito viva. Gli stilisti guardano allo spirito, al corpo, al colore in modo simile a quello degli artisti».

 
I suoi stilisti preferiti? «Sono diversi per aspetti diversi. Mi piace in assoluto Tisci, mi piace Costume National per la semplicità architettonica. Amavo Margiela, ma ora fa cose che non mi convincono. Mi piace tutto di Yamamoto e l’eccentricità e l’incredibile capacità di sorprendere con le sperimentazioni di Comme des Garçons».

 
E un abito che ha sempre sognato di indossare?«Ho un guardaroba molto semplice, basato sul bianco e nero.A volte penso che non ho ancora l’abito rosso perfetto. Sto aspettando che qualcuno lo disegni per me».

 
È la sua prima volta in una giuria di moda? «Sì, ma penso di aver maturato i criteri per capire che cosa funziona e che cosa no. Lo impari negli anni, attraverso i tuoi vestiti e guardando gli errori degli altri. Parlavo dei jeans: possono essere belli, ma per me non vanno. Il tuo corpo te lo dice. È molto importante che gli abiti non ti indossino, ma sia tu a indossare loro ».

 
La moda cos’è? «Una parte molto importante di ogni cultura. La definisce e la riflette».
twitter@boria_a





Marina Abramovic con Victoria Cabello all'ex Pescheria  di Trieste presentano l'undicesima edizione di ITS

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