venerdì 28 agosto 2009

LA MOSTRA

Leonor Fini, l'italienne de Paris


Nudo di Leonor Fini di George Platt Lynes

È una gatta a far litigare, a Parigi nella primavera del 1948, Leonor Fini e Margot Fonteyn. La mascherina disegnata dalla pittrice per "Les demoiselles de la nuit" di Roland Petit, fa "orripilare" l'etoile, che la ritiene grottesca e invasiva, un attentato all'ideale di bellezza romantica che ha costruito su di sè. Ma Leonor, che ama i felini al punto da fondere la sua fisionomia nella loro, non vuol sentir ragioni, minaccia di dar fuoco al teatro se le critiche di Margot troveranno udienza. Capricci di primedonne che la diplomazia di Roland Petit riesce alla fine a smussare: la ballerina accetta le stravaganze della costumista, purchè la maschera venga aggraziata, le fattezze assottigliate. E la querelle finisce in una vacanza comune ad agosto, Margot ospite nella casa di Leonor a Le Bruse, nel sud della Francia, dove, tra bagni, picnic e gite nei dintorni, riprende le forze prima di affrontare la stagione al Covent Garden di Londra, davanti al suo pubblico.
Quindici anni dopo il balletto è alla Scala di Milano, al posto di Margot Fonteyn c'è Carla Fracci, gattina "gentile ed elegante", meno "felina" della collega inglese. Leonor Fini disegna nuove scene e bozzetti sul modello di quelli precedenti, ma questa volta ai tratti impazienti delle micie francesi, si sostituiscono pennellate sorvegliate, per gatte più mature e seducenti, consapevoli del loro fascino. Al ricordo dei suoi amati compagni di vita a quattro zampe, Leonor ha unito un estremo atto d'amore.



"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949
Gli episodi legati alle "gatte ballerine" sono raccontati da Vittoria Crespi Morbio nel saggio "Il teatro sovvertito di Leonor Fini", uno dei tanti contenuti nel catalogo appena pubblicato dal Museo Revoltella di Trieste a corredo della mostra "L'italienne de Paris" (aperta fino al 27 settembre), curata dalla direttrice del museo, Maria Masau Dan.
Più che una "guida" all'esposizione, una corposa monografia sulla pittrice triestina, che, in oltre trecento pagine, alterna gli approfondimenti critici sulle varie stagioni artistiche, Trieste, Milano, Parigi, agli omaggi più intimi, come quello, "Cara gattona", di Sibylle de Mandiargues, figlia di André, primo compagno di Leonor a Parigi, per chiudersi con le interviste agli amici artisti di lunga consuetudine, Enrico Colombotto Rosso, Leonardo Cremonini, Michel Henricot e il più giovane, Eros Renzetti, che la frequentò insieme a Fabrizio Clerici negli anni '80 e poi fino alla morte di lei, nel 1996. Diciassette contributi, tra analisi e colloqui con i compagni di strada, dissezionano vita e opere della pittrice da molteplici prospettive, con la sfida dell'esaustività e il rischio di far vacillare il lettore nelle stesse iperboli che piacevano tanto alla protagonista.
L'ultimo omaggio è una lunga intervista di Vanja Strukelj a Gillo Dorfles sugli anni triestini di "Lolò", quelli in cui entrambi, col gruppo "estremamente intellettualizzato, però anche leggermente sportivo" di cui facevano parte Bobi Bazlen, Italo Svevo, Elsa Dobra, andavano a passeggiare in Carso o a giocare a bocce al "Cacciatore". E il liceale Gillo, pizzicato in città con l'eccentrica Leonor, doveva mandare la madre dal severissimo professor Sabbadini, che la metteva in guardia su quella ragazza «non per bene» con cui il figlio andava in giro.
Leonor e il controverso rapporto con i surrealisti, che non fu mai appartenenza a una "scuola" nè asservimento ai suoi dogmi (lo ricorda l'amico Jean-Claude Dedieu: la pittrice a Parigi indossa calze viola acquistate a Roma, loro la prendono per una provocazione sacrilega ma a lei è semplicemente innamorata del colore...). Leonor e i mascheramenti, le cui origini l'analisi di Ernestina Pellegrini fa risalire a un'infanzia vissuta interamente in un gineceo, priva di qualsiasi aggancio a un ordine di valori maschili, un matriarcato alla luce del quale va letta anche la produzione artistica.
La piccola "Lolò", scappata a Trieste dall'Argentina, viene vestita da maschietto per eludere i sicari inviati dal padre. Una foto di famiglia fissa curiosamente questa rete femminile che la circonda: nell'immagine le zie sono vestite da marinaio e la nonna da comandante, su una finta nave di un finto mare Adriatico. «È il trionfo dell'onnipotenza femminile en travesti - dice Pellegrini - l'ostentazione fiera di un governo matriarcale totalizzante, che si incarna una volta per tutte in ciò che si può chiamare "l'enigma della sfinge", una sfinge da lei ritratta ossessivamente nella sua insolente bellezza...». "Sfinge Filagria", "Sfinge regina", "La piccola sfinge eremita" s'intitolano i quadri degli anni '40, quella stessa sfinge di granito, a Miramare, su cui Leonor bambina si fa fotografare, di spalle, quasi a cavalcare, a dominare l'enigma della femminilità. Una seduzione per lei inesauribile - e la spiega densamente Luisa Crusvar nel suo saggio sulla "mitologia dell'ambiguità" - legata al senso di "forza e regalità, fatalità ed enigma" che alla sfinge attribuiva la Grecia antica e che la pittrice
associa anche agli adorati gatti. A quest'enigma, che su se stessa Leonor rappresenta con imponenti e sinistri travestimenti, fa da contraltare un lato segreto, ancora poco indagato: il ricchissimo carteggio con la madre, lettere giornaliere in cui si leggono fragilià e smarrimenti di un'artista imprigionata nella perenne parata di se stessa («Dell'operazione avevo terrore - scrive a Malvina, dopo l'asportazione dell'utero - perchè sapevo che finchè non si apre un corpo non si può dire nulla... Piansi tutta l'estate con un'angoscia orribile...
pensando sia di morire sia di essere mutilata... non volevo dirti niente visto che là non potevi essere e visto che era inutile agitarti...»).
Trieste, Milano, Parigi, le fasi e gli incontri, gli anni e gli uomini, sono ripercorsi da Maria Masau Dan, Nicoletta Colombo, Isabella Reale. Con un atteggiamento della critica che, anche quando Leonor fu più vicina al surrealismo e ai suoi protagonisti, verso di lei fu scostante, sia per la distanza che la pittrice stessa rivendica tra sè e il "movimento", sia per il sopravvento del personaggio, delle sue passioni e intemperanze, sull'artista.
Filo conduttore del percorso, più illuminante di qualsiasi dissertazione, sono le foto, tante e bellissime, firmate da Dora Maar, André Ostier, Henri Cartier-Bresson, Eddy Brofferio, Arturo Ghergo, Veno Pilon, Richard Overstreet. Leonor nel mare di Trieste abbracciata a uno scheletrico André de Mandiargues, nuda e scultorea per l'obbiettivo di George Platt Lynes, Leonor con i gatti, con le bambole, in Egitto nel '51, davanti alla sfinge e insondabile come lei, Leonor nella sua casa di Nonza, in Corsica, inquieta creatura acquatica, arborea, fusa con la natura eppure estranea. Julien Levy, il gallerista di New York che nel 1936 organizzò una mostra della Fini e di Max Ernst, così ricorda il primo incontro con lei: «Non una bella donna; le sue parti non stavano bene insieme; la testa di una leonessa, la mente di un uomo, il tronco di una donna, il busto di una bambina, la grazia di un angelo e l'eloquio del diavolo. Mentre la caratteristica che colpiva erano gli occhi, grandi e di un nero profondo, il suo fascino era la capacità di dominare le sue parti mal assortite in modo da far sì che
assumessero qualunque forma la sua fantasia desiderasse presentare da un momento all'altro... Era vestita di stracci, o piuttosto di un abito sontuoso strappato ad arte...».

twitter@boria_a


"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949

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