giovedì 7 marzo 2013

IL LIBRO

Sharon Zukin: Nell'altra New York non c'è Little Italy

La notizia è di qualche giorno fa, lanciata dal New York Daily con tono di allarme: Little Italy non esiste più. I negozi e i ristoranti tipici, con pizze, mozzarelle e pasta fatta in casa, sono stati spazzati via da boutique di lusso e loft per celebrità. Si chiama "gentrificazione": arrivano nuovi residenti più ricchi e cacciano i vecchi. I prezzi schizzano alle stelle, i locali etnici vengono occupati dalle griffe. A Little Italy, secondo l'ultimo censimento, non vive più nemmeno un italiano nato in Italia. «È l' 
'ultimo stadio di un processo che ha completamente trasformato la cultura dell'area» spiega Sharon Zukin, sociologa e docente alla City University of New York e al Brooklyn College, che nel saggio "L'altra New York" (il Mulino, pagg. 269, euro 23,00), spia e registra centimetro per centimetro i cambiamenti del tessuto urbano e sociale, raccontando come la città sta mutando pelle.

 
Sharon Zukin, sociologa


 È successo a Little Italy, e anche a Brooklyn, diventata "cool", all'ex ghetto di Harlem, ora ambito dai benestanti. Hell's Kitchen, vicino a Times Square, non è più quella del film di Sean Penn "State of Grace", ostaggio delle gang mafiose e popolata solo da irlandesi e italiani: oggi è la mecca degli amanti della buona cucina.
Accade lo stesso in Europa e nelle grandi città italiane. Si smarriscono le identità delle aree popolari, le metropoli si uniformano verso i piani alti della classe sociale. «Tra gli anni '50 e '60 - dice Zukin - i nipoti dei primi immigrati italiani a New York, arrivati tra il 1880 e il 1920, sfruttarono la sub-urbanizzazione e la crescente mobilità sociale per scappare dai caseggiati grigi e dalle strade malfamate, quelle "mean streets" che Martin Scorsese, cresciuto a Little Italy, raccontò nel suo film del 1973. Gli italiani più giovani si spostarono a Brooklyn, nel Queens, a Staten Islands, alcuni uscirono dalla città verso il New Jersey e Long Island. Rimase qualche negozio, caffè e qualche circolo ricreativo per anziani. Da allora, Little Italy ha subito tre trasformazioni».
Quali?
«Prima è diventata un quartiere turistico "etnico", con ristoranti di qualità media e fiere come quella di San Gennaro, che richiamano molti visitatori. Poi sono arrivati gli investitori cinesi e hanno comprato case e locali per i residenti asiatici, ormai troppi per la storica Chinatown, dove l'immigrazione continua a crescere. Infine, un'onda di "gentrificazione" ha attraversato anche Little Italy: nuovi locali, negozi di designer di grido e i nipoti dei primi immigrati italiani che affittano appartamenti in vecchi edifici, pagando da due a quattromila dollari al mese».
Ma che cosa significa "gentrificazione"?
«È il processo creato da cittadini benestanti che si spostano in quartieri abitati da classi più basse. La parola fu inventata intorno al 1960 dalla ricercatrice inglese Ruth Glass per spiegare la prima ondata di professionisti della classe media che si trasferivano intorno a Hackney, nell'East End di Londra, più o meno lo stesso genere di persone che si spostavano a Brooklyn Heights, Greenwich Village e nell'Upper West Side di Manhattan. Molti ricercatori pensano che il peggior effetto della gentrificazione sia l'aumento vertiginoso dei prezzi delle case, che comporta di fatto la cacciata di chi ha stipendi troppo bassi per pagare gli affitti».
Lei invece che cosa pensa?
«L'aspetto non è solo economico, ma culturale. Cambiano i negozi, scompare tutto quello che prima era familiare. I "gentrificatori", poi, hanno case grandi, socializzano all'interno di esse e non amano il modo in cui la gente di classi sociali più basse usa gli spazi esterni. Niente più barbecue, feste di condominio, niente più domino o carte fuori dalla bottega. Se tutto è una catena o una banca, Starbucks, McDonalds' H&M, HSBC, possiamo sentirci attaccati al nostro quartiere? Senza negozi radicati nel posto l'ecosistema culturale sbiadisce e muore. E senza spazi a basso costo per tutte le classi sociali, la città diventa omogenizzata, monolitica, monopolio dei ricchi, dei più ricchi e dei ricchissimi».
Che cosa le manca di più della vecchia New York?
«Condivido quello che diceva il giornalista E.B. White sessant'anni fa: che New York era una città di quartieri e che ognuno aveva la sua strada principale con il fruttivendolo, il barbiere, l'edicola, la pasticceria, la lavanderia... Questa "strada principale" è stata la spina dorsale del Greenwich Village e il cardine esistenziale della mia vita. Quando di recente sono tornata a casa, dopo un soggiorno di sei mesi ad Amsterdam, sono rimasta scioccata: molti negozi erano scomparsi, e non per la recessione o per il pensionamento dei proprietari. Un "Whole Food Market" ha preso il posto di un supermarket di quartiere che apparteneva alla stessa famiglia dal 1932, un ristorante organico quello di un vecchio negozio di foto, una gelateria "artigianale", con coni al prezzo di cinque dollari, quello di una trattoria. Il negozio di futon si è trasformato in un pasta-pizza-bar "informale ma di lusso".
Strana definizione.
«È questa, invece, la chiave. Vivo vicino a una grande università privata e tutti i nuovi esercizi sono ristoranti destinati a piacere a studenti i cui genitori possono pagare un'educazione costosa e pure i piaceri della vita. E nonostante questi piaceri - gelaterie, crepes cafè e pizza bar - appaiano modaioli e rilassati, sono catene o franchising. Non mi piace l'omogeneizzazione: le città, come ha scritto Jane Jacobs, hanno bisogno di usi misti e, aggiungo io, anche di gente mista».
New York è un paradigma di quello che accadrà in Europa?
«Purtroppo la stessa omogeneizzazione sta ridisegnando le grandi città di tutto il mondo. Le identità locali sono erose dalle grandi catene commerciali, dai complessi edilizi lussuosi e da nuovi progetti che creano lo stesso genere di attrazioni culturali. Noi crediamo che questi siano segni visibili di crescita economica. Al contrario, asservono quartieri e città. Prendi Monti e Testaccio a Roma: la distruzione, o il restauro, dei vecchi palazzi che garantivano una casa a molte famiglie e preservavano l'identità locale, per farne abitazioni più costose, ha distrutto una parte della città storica e l'ha resa simile a molte altre».
I film e le serie tv americane, che ci piacciono molto, ci danno anche un'idea corretta di New York?
«Credo che ciascuno possa trovarci l'immagine della città che realizza la sua identità e le sue aspirazioni. Personalmente amo "Law & Order", che è finita dopo 20 anni, perchè mostra una New York molto dura e realistica e un'ampia varietà di newyorkesi di ogni tipo e gruppo etnico. "Mad Men", invece, che mi rifiuto di guardare, col suo glamour superficiale, ricorda la vacuità di una certa borghesia degli anni '50 e '60, mentre "The Wire", girata a Baltimora, mi piace molto, perchè mostra la vasta e interconnessa complessità del declino urbano».
Qual è il quartiere più a misura d'uomo?
«Quello dove ti senti a casa. Aiuta se parli col macellario, col droghiere, con l'uomo della lavanderia almeno una volta alla settimana, o se compri la verdura e la frutta in un mercatino, così ti senti in qualche modo legato al venditore e al produttore. Ho sempre considerato Greenwich Village a misura d'uomo. Purtroppo la concorrenza della grandi catene e lo shopping su internet sono devastanti per il commercio locale. Ci restano almeno alcuni edifici d'epoca».
New York la città che non dorme mai. Vale ancora questo slogan?
«Molta gente lavora di notte, la metropolitana e alcuni negozi sono sempre aperti. Un aspetto che ho imparato ad apprezzare quando vivevo ad Amsterdam, dove la maggior parte dei negozi chiude alle sei. Ma una "città che non dorme mai" rischia di omogenizzare anche il tempo, così non distingui chiaramente il giorno dalla notte e non riesci ad apprezzarne le diverse qualità».
Qual è la città italiana che le piace di più?
«Sfortunatamente non ho mai vissuto in Italia, quindi non ho sviluppato il senso della differenza tra una città e l'altra. Mi piacciono i vicoli dell'Oltrarno a Firenze e quelli di Venezia e Palermo. Naturalmente queste città attraggono molti turisti. Il problema è sempre lo stesso: quando cerchi la città "autentica", finisci per distruggerla».
twitter@boria_a


Little Italy che ormai non esiste più

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