domenica 14 agosto 2016

 IL PERSONAGGIO

Fulvia Levi Bianchi, da Trieste al mondo l'arte dalle uova d'oro


Fulvia Levi Bianchi, pittrice e scultrice nata a Trieste nel 1927 e morta a Milano nel 2006



Milano, sua città d’adozione, l’ha riscoperta un paio di mesi fa. Trieste, sua città natale, l’ha dimenticata. Un peccato veniale, un’omissione colposa, per una volta. Perchè la vita di Fulvia Levi Bianchi, pittrice, scultrice, designer morta nel 2006, si è svolta lontano da qui, a Milano, dove aveva casa e laboratorio, ma anche tra New York, Madrid, Parigi, e molte altre città del mondo, dove ha esposto e frequentato gallerie, colleghi, il bel mondo internazionale.
Nel giugno scorso, a dieci anni dalla morte di “Fufi”, com’era chiamata Fulvia, la figlia Francesca Levi Tonolli ha deciso di ricordare la madre e l’artista («un tutt’uno, sempre - ricorda - in una donna affascinante, volitiva, energica, triestina al cento per cento») con una mostra, realizzata insieme a Luigi Pedrazzi alla Fabbrica del Vapore di Milano, in collaborazione col Comune. L’hanno intitolata “Ab Ovo”, in omaggio a quello che è stato l’elemento fondante della pittura e scultura di Fulvia, l’uovo, espressione della nascita, della generazione e della rigenerazione. Lo stesso titolo dell’ultima esposizione dell’artista, nel 2004, allo Spazio Oberdan di Milano, corredata, come questa, da un catalogo edito da Skira e con un saggio di Martina Corgnati.


 
Fulvia Levi Bianchi


La mostra alla Fabbrica del Vapore, dal 25 maggio al 26 giugno scorso, è stata la prima antologica dedicata a Fulvia Levi Bianchi. Una sessantina di opere per ripercorrere un momento cruciale e fecondo dell’arte milanese, e italiana, tra gli anni ’50 e ’70, che videro Fulvia protagonista accanto a Gianni Dova, Enrico Baj, Giorgio de Chirico, Roberto Crippa, Piero Manzoni, Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, grandi maestri, ma per lei interlocutori e soprattutto amici, che frequentavano il suo salotto e godevano della sua ospitalità. Non a caso, alla Fabbrica del vapore, è stata allestita una tavola imbandita, con il nome degli artisti-amici di Fulvia e, su ciascuna sedia, la riproduzione di una delle loro opere.



La mostra "Ab Ovo" alla Fabbrica del vapore di Milano

 
Divano e quadri in perspex di Levi Bianchi


 

«La mostra è stata un successo. Molti, che pur conoscevano mia madre, mi hanno detto: “non sapevo che faceva cose così belle”», testimonia la figlia Francesca. «Ora, grazie alla galleria Mazzoleni, stiamo lavorando per riproporla a Torino e, tra un anno, a Londra».
Ma chi era Fulvia Levi Bianchi? E perchè è stata dimenticata? Nata nel 1927 a Trieste (la mamma era Ada Polacco, sorella di Carlo - Carluccio - direttore delle Generali, il padre un milanese) da famiglia ebrea, Fulvia si trasferisce in Lombardia negli anni delle leggi razziali e della guerra, poi a Milano per studiare all’Accademia di Brera. Quelli che diventeranno esponenti di punta dell’arte italiana, sono suoi compagni e amici. «Dipingeva da quando era nata», racconta Francesca. «Nella compagnia era sempre molto richiesta, suonava la chitarra, aveva un carattere allegro, forte, catalizzante».



Fulvia, con la mamma Ada Polacco e lo zio Carlo, direttore delle Assicurazioni Generali


A Milano conosce Giacomo Levi, industriale veneto, con cui si sposa e da cui avrà la figlia. Una signora benestante, che vive in un bel palazzo nel centro di Milano, ma che non vuole e non può rinunciare alla sua passione, conciliando il ruolo di moglie e madre con pittura e scultura. Non c’è da meravigliarsi che la guardino con sospetto da entrambe le parti, sia le sue amiche altoborghesi che gli amici bohemien. «Conduceva una vita artistica molto da uomo - prosegue Francesca - faceva mostre, si costruiva una carriera. E meno male che mio padre era di ampie vedute, perchè la nostra casa aveva un’atmosfera molto creativa, la frequentavano pittori come Giorgio de Chirico, Roberto Crippa, Lucio Fontana con la moglie Rosita, il cubano Wifredo Lam, e critici, storici dell’arte e letterati come Raffaele De Grada, Arturo Schwarz, Carlo Castellaneta. Nel suo ambiente, mia madre strideva un po’. Era donna, e in più moglie di un industriale, ha faticato per emergere, doveva sempre battagliare e in vita avrebbe meritato un successo maggiore di quello che ha avuto».



Fulvia Levi Bianchi con Lucio Fontana


Comincia a esporre a Milano con il gallerista Cortina a fine anni ’60 e il successo arriva. Lei è determinata, “andava nelle gambe del diavolo”, come ama ricordare Francesca. Nel ’68 segue il marito in un viaggio d’affari in Iran e l’allora console generale le commissiona il ritratto di Farah Diba e dello Scià, da donare a quest’ultimo per la sua incoronazione. L’opera rimarrà esposta alla corte di Teheran fino alla caduta del regime. Nello stesso anno il Comune di Milano la chiede un’opera per il cardiochirurgo Christiaan Barnard, in visita alla città.

La svolta nella vita di Fulvia Levi Bianchi avviene nel 1971, quando conosce il gallerista greco Alexander Iolas, allora uno dei più importanti al mondo, che ha lanciato nei suoi spazi espositivi artisti come Max Ernst, Roberto Matta, Andy Warhol. «Iolas - dice Francesca - la prese sotto la sua ala, decise di scommettere su di lei. Vide nell’uovo un segno da coltivare e le consigliò di lavorarci su. Doveva “pulirsi”, i suoi lavori erano troppo complicati». Con Iolas, dalla fine degli anni ’70, Fulvia Levi Bianchi espone a New York, Parigi, Atene, Madrid, e ancora a Barcellona e Amsterdam, oltre che a Milano. Il critico francese Pierre Restany la apprezza. L’uovo è il suo archetipo e per comprendere a fondo il ruolo che occupa nella sua pittura contatta uno studioso del calibro di Claude Lévi-Strauss: l’antropologo le dedica un saggio, lei un dipinto di cinque metri, un uovo che esce dal nero. Raggiunge quotazioni altissime. Conosce Warhol e lo ritrae. Insieme espongono in un grande loft newyorkese, mettendo a confronto le loro due Marilyn, quella di Fulvia svagata e trasognata: è un successo.

 

Fulvia Levi Bianchi con Alexander Iolas nella sua galleria di Milano (1970)


Nell’87 muore Iolas. «Mia madre diceva che non c’erano altri come lui e, da allora, decise di dipingere solo per sè. Non aveva bisogno di vendere quadri, era una donna agiata, e non trovava una galleria che le andasse a genio. Così si è chiusa, è stato uno sbaglio suo».
Due anni dopo, Fulvia Levi Bianchi decide di cambiare la sua vita. Non ha più la madre («con cui parlava di Trieste, in triestino. Il rapporto con la città era una loro esclusiva», sorride Francesca), da tempo è rimasta vedova, si è ammalata di tumore. Lascia il palazzo in centro e compra una fabbica dismessa e fatiscente, un ex laboratorio per i bagni d’argento, che ricostruisce secondo i suoi gusti per trasformarla in una luminosissima casa-studio. È forse il primo vero loft d’artista in una Milano ancora poco innovativa e finisce immortalato dalle riviste patinate.


Molti intellettuali e artisti si trovano da lei per chiacchierare in mezzo all’arte. Fulvia è amica degli stilisti Mila Schön e Ottavio Missoni, entrambi dalmati e triestini d’adozione, a “Tai” fa un ritratto, come ad altri grandi “milanesi” tra cui Giorgio Strehler (triestinissimo anche lui, suo malgrado), Armani, Krizia, Valentina Cortese, Umberto Veronesi. Il ritratto di Strehler viene offerto al Piccolo Teatro e collocato all’entrata.



Il ritratto di Ottavio Missoni firmato da Fulvia Levi Bianchi


Dal 1957, anno della prima mostra nella galleria Montenapoleone di Milano, alle ultime esposizioni tra la fine dei ’90 e i primi anni 2000 alla De Vorzon Gallery di Los Angeles e nel 2004 ancora a Milano, in quasi cinquant’anni di carriera, Fulvia Levi Bianchi si è misurata con tutto: ha realizzato imponenti sculture per la Ferrari e un prototipo di casco, ha collaborato con David Copperfield (e le sue opere, esposte al Magic Museum di Las Vegas, sono finite su una serie di francobolli che il celebre mago ha distribuito sul mercato americano), ha inventato gioielli e pezzi di design. Ha cominciato a dipingere influenzata dal surrealismo, è passata a un linguaggio metafisico e filosofico negli anni ’70 e ’80, per approdare, nel Duemila, a oli su ferro e suggestioni vicine alla grafica e all’architettura.



Marilyn Monroe di Fulvia Levia Bianchi

 
Mostra "Ab Ovo", omaggio a Klein




«Aggrediva la vita come un leone, il segno sotto cui era nata», conclude la figlia Francesca. «Ha dipinto fino alla fine. La pittura era tutto per lei, la riempiva di gioia e le dava la forza di superare i momenti terribili che il destino le aveva riservato: i lutti, la malattia. Mi ha lasciato una grande eredità, l’insegnamento di non fermarsi mai davanti a niente. Adesso mi piacerebbe portare le sue opere a Trieste, farla ricordare nella sua città, che amava tanto».

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