domenica 14 gennaio 2018

IL LIBRO

Dentro le stanze dell'addio

Non un monumento, ma un attraversamento. Non la celebrazione di una perdita, ma il percorso che ha condotto al distacco, con tutte le speranze, le rabbie, le remissioni, i precipizi, il limbo indefinito e nebuloso, quando sai ma ancora ti aggrappi, quando i medici parlano e tacciono, quando cominci quell’ultimo tratto che precede un addio. Quando tua moglie è un petalo e a farla volar via basta un soffio.
Yari Selvetella, giornalista e scrittore, in un’intervista radiofonica a Radio radicale, ha definito così, come un movimento “dentro”, “verso” qualcosa, l’accompagnamento nella malattia e poi la morte della sua giovane compagna, madre dei suoi tre figli, la saggista, critica, editor di Einaudi e Fazi Giovanna De Angelis, scomparsa a Roma nel 2013.





Oggi, a cinque anni di distanza, quando al lutto è stato dato un posto nella vita che va avanti, Selvetella guida il lettore nel suo congedo da Giovanna, attraverso “Le stanze dell’addio” (Bompiani, euro 15,00, pagg.185): la casa della famiglia, con le sue tracce di intimità domestica, una vacanza che lascia sulla pelle di quella giovane donna i primi segni della fine, poi il reparto con il suo odore di disinfettante, il carrello del vitto e i tanti libri ancora da esplorare, la rianimazione senza finestre, il labirinto bianco dell’ospedale, e, alla fine, il crematorio, l’acqua che trascina via il contenuto di un’urna di ceneri dietro l’altra, mischia le esistenze di sconosciuti, in uno scorrere e disperdersi che, nella sua igienica crudeltà, traccia una riga tra il prima e il dopo. Yari è lì, su quel crinale tra l’ossessione della perdita e l’energia di andare avanti, per i figli, per quello che la coppia ha costruito insieme. Ed è lì che si dipana il libro, dentro e fuori dalle stanze del dolore, tra il rifugio dei ricordi e la vitalità della rinascita.





Quando già stava male, Giovanna De Angelis scrisse “La frattura”, il suo unico romanzo uscito postumo (Elliot), in cui racconta la storia di Francesca, giovane traduttrice sposata a Cosimo e amante di Diego, nella cui vita irrompe la malattia: uno “schianto”, come si intitola una delle due parti in cui è suddiviso il romanzo, che rimette tutti i personaggi al loro posto, che smaschera gli inadeguati ad affrontare la lotta, che fa emergere «un improvviso bisogno di precisione, di parole esatte e pronunciate correttamente». Da qui, dalla necessità di termini diretti, chirurgici, che entrano dentro il dolore come un bisturi, senza slabbrature, per incidere e liberare, continuiamo a inoltrarci nella storia di Giovanna. Perchè anche Yari sceglie le parole con cura, in questo corpo a corpo con la morte. Sono due libri diversi ma non è un azzardo accostarli, leggerli come momenti dello stesso viaggio, una coppia in transito in una vicenda il cui finale e già scritto.


C’è un uomo con i baffi, l’alter ego di Yari, che torna e ritorna in ospedale a cercare la moglie, morta da tre anni. Si aggira in spazi che conosce eppure che gli sono estranei, sente gli odori, i bip delle flebo che finiscono, vede quei bozzoli tra le lenzuola. Dov’è sua moglie? La camera dove era ricoverata è vuota, lei non c’è più da molto tempo ma lui continua a riandare lì, di persona e col pensiero, domanda, aspetta fuori dalle porte, si perde, si nasconde, origlia.


In questo suo vagabondare cosciente e confuso insieme, incontra un altro uomo. È il giovane addetto al bar dell’ospedale, ha perso il padre e anche lui, col suo dolore, è rimasto impigliato in stanze che non gli appartengono più, dove si aggira da spettatore, vivendo una vita che non è sua.


Pagina dopo pagina, entriamo nelle assenze di entrambi, nei loro distacchi ancora impronunciabili, camminiamo sul confine tra il soprassalto del passato e un futuro al quale abbandonarsi. «Ma ora è il momento di provare a ritornare, di essere una persona sola», dice l’uomo coi baffi al ragazzo. E continua: «Così non è possibile. Tradisco non solo la mia vita, ma la sua, che era capace di non sprecarla, a qualsiasi costo, lei che ha insegnato soprattutto questo, a non arretrare, a non accomodare. Io devo andarmene, anzi dobbiamo tutti e due tornare al mondo».


Un libro mai consolatorio, anche quando il protagonista accetta di aprirsi a un nuovo amore. Di lasciare ancora scorrere la vita (e “scorrere” è uno dei verbi della malattia, dell’esame invasivo di una delle pagine più dolenti), perchè è l’unica vittoria sulla morte che abbiamo a disposizione.

@boria_a

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