martedì 23 gennaio 2018

IL LIBRO

Vincere la pazzia, con il calcio totale del compagno Cruyff 






Un calcio e la torre di mattoncini che Marcello ha costruito col suo papà va in pezzi. Il bambino ha quattro anni e per la prima volta vede quel grande uomo a cui vuol bene, con cui ha giocato steso sul tappeto tutto il pomeriggio, compiere un gesto incomprensibile. Coglie il suo sguardo minaccioso e indecifrabile, avverte in lui una rabbia che non capisce ma di cui si sente in qualche modo responsabile. Un calcio sta all’inizio di questa storia, che è un racconto di malattia mentale, ma anche di vitalità, di cadute, di rabbia e di sopravvivenza. E i calci, anzi il calcio, la percorre tutta, una passione che Marcello condivide col padre e che diventa un codice per entrare nel suo disagio, per trovare nel corso di lunghi, tormentati anni, prima da bambino, poi da adolescente e da uomo maturo, un modo di comunicare. 

“La trappola del fuorigioco” è il libro, autobiografico, che Carlo Miccio ha scritto sulla sua esperienza di figlio in una famiglia attraversata, e spezzata, dalla sofferenza psichica. Edito da Alpha Beta Verlag nella collana “180 Archivio critico della Salute mentale” diretta dallo psichiatra Peppe Dell’Acqua, viene presentato venerdì 26 gennaio, alle 18, alla libreria Ubik, dall’autore insieme ad Anna Piccioni dell’associazione “Leggere per vivere”, Novella Comuzzi di “Articolo 32” e al giornalista Carlo Muscatello, con letture di Mariella Terragni. 



Carlo Miccio


Un racconto duro e toccante, che sfugge al perimetro della classificazione di letteratura della malattia, per vivere come storia a sè, di uomini che si incontrano, con le loro fragilità e le loro devianze, e trovano faticosamente un modo per parlarsi e conoscersi. Perché il racconto della vita di Marcello-Carlo, accanto a questo papà amato e sopportato, tra alti e bassi, l’assurdità dei gesti della sua sofferenza, le fissazioni e poi le esplosioni di generosità e di vitalità, riesce a parlare a tutti, al di là della patologia, a interrogarci sul nostro modo di fare squadra davanti alle sfide di ogni giorno. 


Pochi anni dopo quel primo calcio alla torretta dei lego, Marcello scopre la psicosi del padre Sebastiano. Da Latina, dove la famiglia abita, i due scendono in un paese della Sicilia per il funerale di una zia. E il 1975, l’anno della travolgente avanzata elettorale del Pci di Berlinguer. Per il padre la vittoria dei compagni è la molla scatenante di un disagio fino allora tenuto a bada dalle medicine, quelle misteriose pastiglie che la mamma ha raccomandato a Marcello di fargli prendere ogni sera. «Siamo undici milioni» gli dicono tre operai sul traghetto e nei suoi occhi si dipinge il terrore. I “rossi”, pensa, gli porteranno via le sue proprietà, bruceranno le chiese e spianeranno la strada a una società di senza dio.
Marcello non capisce, perché per lui il comunismo è quello che, qualche giorno dopo, il fratello di un amichetto dei cugini siciliani, segretario del locale Pci, gli spiegherà davanti a un campetto di calcio: è il metodo dell’Olanda del compagno Johan Cruyff, il gioco totale, la squadra che si muove compatta al centrocampo e vince perché riesce a fare sintesi del meglio di ogni giocatore. Un modulo fantastico, niente di cui aver paura. 




La paura, invece, è il problema di suo padre. Così un bambino di dieci anni si spiega quella strana sofferenza, quegli scoppi di urla, quei cambi di umore repentini: paura di qualcosa di immanente, di ingiusto e di cattivo, paura che prende le sembianze di chi gli sta intorno. Gliel’ha vista negli occhi sul traghetto, poi nella visita a sua madre, la strana nonna che puzza e fuma, da anni rinchiusa in manicomio, poi ancora in una discussione col fratello, lo zio Rocco, riparato in Francia perché – spiegano i cugini a Marcello – ha ammazzato un uomo di botte, senza un motivo, ed è finito in una galera-ospedale dove lo tenevano legato a un letto. «Papà dice che la nostra è una famiglia di pazzi», sintetizza la cugina Santina.
Passano gli anni e “la malattia di papà” prende un nome: depressione bipolare schizoaffettiva. Cominciano i ricoveri, le terapie che lasciano come zombie, gli sconquassi stagionali, i rientri a casa, in una famiglia dove mamma e figli vivono in uno stato di perenne allerta, nell’insicurezza di non riconoscere più l’uomo che vive accanto a loro, ma di doverlo difendere dalla cattiveria del mondo, da chi lo spenna a carte e si approfitta della sua confusione. Magari anche di doversi un giorno difendere da lui e dal suo male. 


Finché Marcello, ormai adolescente, legge su uno “speciale droghe” di Famiglia Cristiana che l’Lsd provoca nel cervello dei drogati lo stesso cortocircuito del cervello degli schizofrenici: allucinazioni e pensieri deliranti come quelli di un matto, che però svaniscono quando finisce l’effetto della droga. L’acido fa impazzire a tempo, insomma, e poi si torna indietro. E lui, più di tutto, vuole scoprire cosa succede nella testa di suo padre, vuole entrare in quella zona buia che non lo spaventa ma lo incuriosisce. E capire, finalmente. 


Passano gli anni, e anche i campionati di calcio, tra trattamenti tradizionali e trattamenti sanitari obbligatori. La famiglia nel frattempo si è divisa, Berlinguer è morto, il Milan è finito in B e risalito in A, per due volte consecutive. Quel che resta immutabile è la curva ciclica della malattia: il buio dell’inverno in camera, l’esuberanza gioviale in primavera, l’angoscia dell’estate, l’insonnia, le peregrinazioni notturne, la discarica della stazione Termini. È l’idea di essere soli a fronteggiare il mostro. 


Marcello si laurea a pieni voti, nonostante una tossicodipendenza ormai decennale, con una tesi sull’etnografo napoletano Ernesto De Martino. Ci si era imbattuto per caso, durante una lezione sulla religione dei popoli primitivi, in cui il professore parlava dei latah, persone che non possono fare a meno di ripetere compulsivamente il comportamento degli altri, che si spersonalizzano. Lui l’aveva visto fare a suo padre, durante una spedizione familiare alla Standa, quando Sebastiano si era messo a imitare i gesti di altri acquirenti, a camminare nei loro passi. “Me stai a cojonà? ” gli aveva detto uno. Si erano presi a pugni e il pomeriggio era finito con l’ambulanza e un ricovero immediato. 


De Martino aveva studiato le “tarantolate” dell’Italia meridionale, donne cadute in trance epilettica per il morso di un ragno, da cui venivano liberate con un esorcismo musicale collettivo. Ancora una volta Marcello si era imbattuto nel modulo del calcio totale, applicato alla psichiatria sociale: il rito serviva a difendere dalla follia l’intera comunità, minacciata dalla malattia di uno dei suoi componenti. Insieme la si affrontava, la si espelleva. 


È negli anni dopo la laurea che Marcello cade nella “trappola del fuorigioco”, come avrebbe detto Bruno Pizzul. Stagione 1992-’93, la Fiorentina, la squadra che ha sempre tifato, parte forte, ma retrocede in serie B. Retrocede anche lui, in qualche modo. Lo sballo tenuto sotto controllo durante l’università, diventa l’unica ragione per alzarsi dal letto. Gli manca una direzione che non sia quella di procurarsi la droga, ha paura di covare la stessa psicosi del padre. Ci vorrà un lungo percorso, e un confronto senza paura con uno psichiatra del Sert, per affrontare il problema, prima confessandolo alla madre e alla sorella, poi lasciando l’Italia e trasferendosi per anni a Londra. 


Oggi Marcello vive con suo padre, dopo un matrimonio finito, e lavora part time come mediatore culturale. I soldi sono pochi e il calcio totale è diventato un giocare a zona, ognuno copre la sua parte di campo e cerca di prendersi cura di sè. O un catenaccio. Un senso di fragilità accomuna padre e figlio, un’assenza di desiderio: Sebastiano fa i conti con la sua malattia, di cui per anni ha ignorato perfino il nome ( “bipolare, cosa vuol dire? ”, chiede al figlio dopo una visita medica), Marcello con la precarietà del quotidiano, con la povertà che assedia entrambi. 


L’unica risorsa è la speranza di cambiamento. L’impermanenza. E l’idea, chissà il sogno, che prima o poi il calcio totale del compagno Cruyff, il collettivo, si applichi alla malattia, al lavoro, al sociale. Magari non per vincere, solo per vivere meglio. Col pane e le rose, tutti quanti. 

@boria_a

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