martedì 4 maggio 2021

MODA & MODI

 

Ma quella tuta post-pandemica non è più una resa...

 

 

Chissà come emenderebbe la sua celebre frase Karl Lagerfeld, che nel 2013 definiva «segno di sconfitta» i pantaloni della tuta, un acquisto che equivale a una resa, quando «non riesci più a controllare la tua vita». Quest’ultima situazione si è ripetutamente presentata negli ultimi mesi, senza che avessimo voce in capitolo. E le tute, le felpe, i leggings, in genere l’abbigliamento per il tempo libero, più o meno attivo, da ripiego obbligato sono diventati un’abitudine, di cui abbiamo imparato ad apprezzare libertà e confortevolezza.

 

Non un abdicare a tenere in pugno la propria vita, non una deriva di stile, ma un nuovo modo di vestirsi in spazi dove lavoro e domesticità coincidono, con le rispettive esigenze di presentabilità e praticità.
L’interrogativo è uno: come ci vestiremo dopo l’esperienza della pandemia? La tuta, rivisitata e ingentilita, diventerà a tutti gli effetti un capo da portare anche nelle occasioni “in presenza”? O sentiremo un bisogno impellente di reagire risalendo sui tacchi, sigillati in una giacca? Su un punto concordano designer, buyer, osservatori della moda: le rigidezze del dress code da ufficio sono superate, i capi diventano più informali, adeguandosi al cambiamento del concetto di luogo fisico di lavoro, che può essere anche all’aria aperta.


Le collezioni che vediamo nei negozi rispecchiano entrambe le sensibilità. Sono spariti gli skinny, i jeans si allargano fino a diventare quasi a campana, gli altri pantaloni, in tessuti più leggeri, sono così ampi sulla gamba da sembrare gonne. Le giacche si sono ammorbidite, nei tessuti e nel taglio a cardigan, quando non diventano kimono, senza bottoni. Le camicie si allungano, fanno da mini abiti, spesso hanno dettagli sportivi, come i laccetti ai bordi che consentono di giocare con i volumi. I vestiti non segnano, la cintura si appoggia al punto vita senza strizzarlo. L’elastico, sia nelle gonne che nei pantaloni, non è più sinonimo di rifiniture sciatte, ma è un ulteriore elemento di comodità.

A questi capi, com’è avvenuto in passerella, si mischiano le tentazioni per chi vuole lasciarsi tutto alle spalle: top e giacche di paillettes, trasparenze e cascate di ruches sulle camicie, dettagli glitterati, inserti con catenelle, strass sulle scarpe, col tacco o ginniche.
 

Non è stata la pandemia a far scoppiare la voglia di abbigliamento casual. Da tempo i gusti dei consumatori si orientano verso un modo di vestire adattabile, funzionale, che lasci libertà di movimento, realizzato in tessuti di qualità destinati a durare, per evitare accumulazioni e sprechi. Il lockdown ha acuito queste esigenze e ci ha lasciato in eredità l’insofferenza per le costrizioni, anche nei vestiti, e per i diktat delle tendenze. Perfino l’haute couture che ha sfilato a febbraio ha colto il segnale e si è affrettata a mandare in passerella volumi molto ridotti, outfit più sobri e contenuti, che disegnano la naturalezza del corpo invece che costruirgli intorno propaggini artificiali.


La tuta, per tornare a Lagerfeld, non è una “resa” post-pandemia. Si combinerà con capi e dettagli glamour, diventerà più ricercata nei tessuti e negli accostamenti cromatici, ma ormai si è affrancata dal concetto di tempo libero, come tutto l’abbigliamento casual. Se i vari dress code sfumano, la parola chiave è versatilità, e non solo nel modo di vestire. 

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