domenica 26 febbraio 2012

MODA & MODI

Kinabuti: in Nigeria, nel ghetto, è nata una maison


Un modello Kinabuti

Verdi, rossi, gialli tropicali. L'ocra, il senape, gli arancioni della terra, l'azzurro pavone del cielo. Abiti, giacchine, pantaloni, soprabiti dal taglio occidentale su stoffe africane, con colori e motivi che paiono esplodere sul corpo. La "maison" si chiama Kinabuti e non è una semplice, piccola casa che produce moda etnica. Perchè lo fa in Nigeria, uno dei giganti del continente nero, gonfio di petrolio e di corruzione. E soprattutto perchè a fondarla sono state due giovani donne spilimberghesi, amiche fin dall'infanzia, Caterina Bortolussi, 33 anni, stilista, e Francesca Rosset, 31 anni, esperta di marketing, che a Lagos, dove vivono da alcuni anni, hanno dato vita a un'esperienza imprenditoriale e sociale: disegnano e producono vestiti per "celeb", e li fanno indossare in passerella da ragazze dei quartieri degradati di Port Harcourt, la capitale del Delta del Niger, alle quali hanno insegnato il mestiere di modelle. Il progetto l'hanno intitolato "In our ghetto", una sorta di scouting nelle comunità di Bundu, Marine Base, Okrika e Agri Estate, dove la miseria è estrema, il caldo asfissiante e gli occidentali sono considerati prede da sequestro. Da qui, grazie a Kinabuti, sono uscite le ventun ragazze che oggi, a un anno e mezzo dall'inizio dell'esperienza, sono le top model della Nigeria, sfilano per importanti designer, partecipano a pubblicità e servizi fotografici a livello internazionale, e lavorano come hostess e promoter di vari marchi.
"Kinabuti girls" con la designer Caterina Bortolussi
Sembra una favola moderna. A cominciare dalla scelta di questo strano "Kinabuti", che è come Caterina Bortolussi pronunciava il suo nome quando era bambina. Laureata in Economia all'Università di Udine, prima di diventare stilista lavorava a Londra per la banca di investimento Barclays Capital, ma la sua vita le stava stretta. Amava le tinte accese, la creatività, lo stile funky che non passava inosservato nei ventiquattro piani della società.
Quando, sei anni fa, è arrivata per caso in Nigeria come consulente di un'agenzia di comunicazione, ha deciso di rimanerci e proprio lì, dove iniziare non è facile per nessuno, tantomeno se sei giovane, donna e bianca, di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Di più: disegnarli, aiutando gli altri. «Mi resi conto subito - racconta - della vitalità e creatività di questo paese e di quanto poteva offrirmi. I colori, la felicità della gente, la fede in Dio e nell'uomo, il vivere il presente: l'Africa è un continente speciale e la Nigeria è decisamente il paese più interessante e intenso. Ho capito che qui potevo, e dovevo, realizzare il mio sogno».
Nel 2010, insieme a Francesca Rosset - un'esperienza alle spalle come direttore clienti alla McCann Erikson nelle sedi di Barcellona, Milano e Sao Paulo, anche lei approdata in Nigeria come dipendente di un'altra società - apre un piccolo laboratorio, che all'inizio è una stanza della casa in cui abitano. Due sarti e un primo giro di clienti che sono amiche e amiche delle amiche. «Quando abbiamo cominciato - prosegue Caterina - non sapevamo nulla di moda, non avevamo mai visto un atelier e mai preso in mano una macchina da cucire. Qui non è facile trovare i fondi per finanziarsi e far crescere l'impresa, i costi di start-up sono altissimi. Ma il nostro sogno era più grande di qualsiasi dubbio, abbiamo entrambe lasciato tutto per seguirlo. E, pur tra tante difficoltà, siamo riuscite, con i nostri vestiti e i nostri progetti sociali, a conquistare il cuore della gente in Nigeria e nel mondo. La svolta la stiamo costruendo giorno per giorno, con molta pazienza e amore».
"Kinabuti" firma abiti dallo stile italiano tagliati su stoffe africane come l'ankara, tipico tessuto nigeriano. Collezioni donna e uomo, per una clientela che non ha problemi di soldi. «Abbiamo un discreto giro di clienti e amici - spiegano Caterina e Francesca - nigeriani, libanesi, indiani, italiani, spagnoli. Kinabuti, ci dicono, non è solo una marca ma un modo di vivere». Che piace ad autentiche star, tra cui Genevieve Nnaji, la più grande attrice africana, la collega nigeriana Rita Dominic, i cantanti Darey Art Alade e Nneka, voce di Lenny Kravitz e Damien Marley, il rapper Pras dei Fugees. Tra poco, sperano, un outfit "Kinabuti" vestirà la celebre anchorwoman Oprah Winfrey, una delle opinion leader più influenti d'America.
Con il business, cresce l'impegno. La filosofia del marchio è quella di entrare in contatto con le comunità locali e offrire opportunità e formazione a chi ne ha più bisogno. Le "Kinabuti girls" hanno imparato a truccarsi, a pettinarsi, a sfilare e posare, hanno ottenuto un lavoro che, per un singolo evento, può fruttare tra gli 80 e i 200 euro a testa, in un paese dove il settantacinque per cento della popolazione vive con un euro e mezzo al giorno. Bertha, vent'anni, oggi è una modella a tempo pieno, lavora a Lagos e con i soldi guadagnati mantiene il figlio di 5 anni e la famiglia. Con Benita ed Ebi, ha posato per Vogue Italia e per diverse copertine di magazine nigeriani, oltre a partecipare al primo spot che Martini ha girato in Africa. Tombo e Queen lavorano per Kinabuti come "designer assistants" e hanno ottenuto una borsa di studio per l'Università di Lagos. Le loro storie sono diventate un docu-film presentato all'ultima mostra di Venezia, "In our ghetto", firmato dal regista svedese Marcus Werner Hed, che ha seguito le ragazze per tre settimane mentre si preparano a una sfilata.
Ieri, alla Lagos Fashionweek, Caterina e Francesca hanno mandato in passerella la loro terza collezione. Si chiama "Kinabuti Vlisco Jez collection" ed è ispirata alla campagna, ai paesaggi rustici, agli arcobaleni, alla natura. «Siamo cresciute in un paese circondato da campi. I miei nonni - ricorda Caterina - lavoravano la terra, mio padre commerciava bestiame. Con questi abiti intendiamo celebrare dove il sogno è cominciato, le nostre famiglie e i valori che ci hanno trasmesso». Tra questi, il rispetto per se stessi e per il proprio ambiente. Ecco perchè "Kinabuti" ha avviato un'attività ecologica di pulizia dei ghetti, insieme alle autorità del territorio. Si è aperto così un dialogo con il governo locale e ora anche nelle comunità emarginate e pericolose del Waterfront, dove la tensione sociale è altissima, passa il camion della raccolta rifiuti.
Progetti? In dicembre l'apertura del negozio di Abuja e un percorso di formazione al cucito per donne e uomini del Niger Delta, che così saranno inseriti nelle linee produttive del brand. «Vogliamo rimanere qui - dicono Caterina e Francesca - perchè pensiamo di essere al posto giusto nel momento giusto. L'Africa è il futuro e il World Economic Forum ha identificato la moda come uno dei settori che può guidare lo sviluppo del continente. Non appena riusciremo ad aumentare la produzione, puntiamo a esportare in Europa, America e Sudafrica. Siamo italiane ma viviamo in Nigeria e quello che ne esce è davvero unico. E poi ci piacerebbe vestire Gwen Stefani, Jennifer Lopez e Madonna».

twitter@boria_a


Caterina Bortolussi con una delle sue modelle

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