mercoledì 20 febbraio 2013

IL LIBRO
Le donne raccontano l'inferno dentro casa

La copertina del volume edito da Marsilio e nato dal blog la 27Ora

«La prima volta che mio marito mi ha picchiata l'ho presa come una dimostrazione d'affetto: anche mio padre da piccola mi picchiava sempre. E lui era l'amore della mia vita, il padre di mio figlio: se mi menava era perchè mi amava. Me lo meritavo, avevo sbagliato io. Anche lui me lo diceva: stai buona, mi ripeteva, non capisci niente». Comincia così la storia di Sara, 57 anni, un figlio, un marito condannato per maltrattamenti e ora sotto processo per stalking. A lasciarlo ci ha messo quindici anni, nonostante i ricoveri in ospedale per botte, una sera con un aggeggio che lei aveva visto solo in televisione: il manganello nero, quello delle guardie. Seguivano le denunce, il ritiro delle denunce, il ritorno a casa, fino all'inferno successivo. «In realtà ero dipendente: senza di lui non riuscivo a vivere».
Sono le parole di Sara, le stesse che ha pronunciato, qualche sera fa, Luciana Littizzetto sul palco dell'Ariston, nel giorno del flash mob di "One billion rising" contro la violenza sulle donne, nella notte in cui Oscar Pistorius sparava quattro colpi alla fidanzata. «Chi ci ama non ci mena» - ha detto Luciana. «Vogliamo credere che ci ami? Allora ci ama male».
Sara, Maria, Ileana, Rosaria. Ed Elena, che dieci anni dopo le violenze fisiche e sessuali, rabbrividisce ancora se un uomo la sfiora. E Greta, laurea a Londra, e un marito, ricco e brillante, che a tavola la ingozza come un maiale, che le porta a casa derrate da caserma e se sbaglia le ricette della suocera le brucia il braccio contro le pentole: il cibo, l'ennesimo strumento di tortura fisica e psicologica. Questo non è amore, appunto. S'intitola così il volume (edito da Marsilio, pagg. 267, euro, 16,50) nato dal blog la "Ventisettesima ora" delle giornaliste del Corriere della Sera. Venti storie, che partono da una domanda: perchè una donna, quasi sempre adulta e apparentemente libera, al primo spintone, al primo schiaffo o alle prime parole crudeli, non allontana da sè per sempre l'uomo che la sta minacciando? Perchè, come ha detto Littizzetto, non si rende conto subito che al primo ceffone ne seguirà inevitabilmente un secondo, e poi un terzo? Che quello non è amore?
Le protagoniste, di tutte le classi sociali, raccontano di maltrattamenti, di umiliazioni, di stupri domestici, di tenerezze malate, subito seguite da incontrollabili scoppi di violenza. Di vite, letti, figli condivisi per anni con mostri, in rapporti terminali che però sono riuscite a spezzare un passo prima della morte, la loro.
A volte basta una scintilla a innescare la ribellione. Un soprassalto di dignità, la scoperta di un'amante, magari portata a casa, il sospetto di abuso sui figli, l'incontro con una rete sociale che affianca le maltrattate, che le aiuta a rompere i meccanismi sociali, spesso i ricatti delle famiglie di origine, a superare le speranze dell'amore eterno andate deluse.
«Perchè non lo lasci, di che cosa hai paura? Di morire? Non vedi che sei già morta». Le parole di un'amica e la scoperta di una passione per l'arte, salvano Sara: «Per la prima volta ho visto che avevo delle risorse. Non era vero che non capivo niente e che sapeva tutto lui». E Ileana Zacchetti, assessore alle Politiche sociali e pari opportunità del Comune di Opera, 52 anni, due figlie, insultata e picchiata a sangue da un nuovo compagno, l'unica a comparire con nome e cognome: «Alla fine quello che mi ha convinta a denunciare è stato un sms di una persona molto vicina a Lui. Mi diceva: "Come ti permetti di andare in giro a dire che ti ha picchiato?" In realtà non avevo parlato con nessuno. Ma in un piccolo centro le voci si diffondono in fretta. Lì ho capito che non avrei più avuto pace. Colpe e responsabilità sarebbero comunque state attribuite dal tribunale invisibile della nostra comunità. E allora meglio andare fino in fondo a difendersi, nel tribunale, quello vero».
Parlano le vittime, ma anche i "maltrattanti", come li chiama la burocrazia della giustizia, ovvero quei fidanzati, mariti, compagni le cui giustificazioni più frequenti sono la "perdita del controllo", il "crescendo di incomprensioni" nella coppia, e l'inadeguatezza, la disubbidienza, l'incapacità delle loro donne a soddisfare esigenze domestiche, sociali, sessuali, relazionali. «In realtà io non la amavo davvero. Mi ero abituato alla sua presenza in casa. Così è nato il disastro. Mi sono lasciato andare a un primo episodio in cui ho minacciato la mia compagna. E poi c'è stato il secondo episodio in cui le ho messo le mani al collo. Ero disperato», dice Francesco. «Un'altra volta l'ho presa per i capelli in bagno di fronte allo specchio. L'ho proprio terrorizzata. Un'altra ancora l'ho stretta al muro, scuotendola. Il giorno dopo aveva le ecchimosi sulle braccia. Sono cose che mi fanno stare malissimo. Ma lei, ogni volta, rincarava la dose. Avevo una rabbia per la sua irragionevolezza...», testimonia Mario. Entrambi annaspano nel cercare le origini della loro brutalità, ma minimizzano, cercano giustificazioni altrove, scaricano le colpe. Uomini e donne, coppie, le cui voci si integrano, ma rimangono un desolante monologo parallelo.
E poi ci sono gli interventi delle fondatrici dei centri antiviolenza, della dottoressa che ha creato la prima task force "Codice Rosa", della magistrata che ha visto "Processo per stupro" negli anni '70 e si è giurata di non permettere mai che nella sua aula la donna venga brutalizzata per la seconda volta. Di Barbara Spinelli, avvocata e relatrice speciale Onu contro la violenza sulle donne, a spiegare che il "femmicidio" è l'uccisione della donna "in quanto donna" e il "femminicidio" è l'annullamento della sua dimensione fisica, psicologica, sociale, politica, culturale, la violazione dei suoi diritti umani fondamentali. Comportamenti che la annientano, senza arrivare alla morte fisica.
Parla anche Antonio, il carabiniere col sogno da parà, cui un litigio col capitano è costato il "trasferimento" alla sezione violenza su donne e bambini. Antonio che ha imparato a non dire più, davanti a un occhio nero: «Ma cosa gli hai fatto per farti ridurre così? Su tornatene a casa, fate pace», ma oggi sa riconoscere le ferite nell'animo delle vittime.
Perchè le testimonianze, le inchieste, un libro "aiutano a salvarsi", ricorda Lea Melandri, figura storica del femminismo. Solo un'empatia profonda ci può far dire "sta succedendo a tutte noi", la chiave per sradicare il male. Anzi, "sta succedendo a tutti noi", perché anche gli uomini, anche quelli che credono di non aver nulla a che fare con la brutalità, in questo sforzo c'entrano.
twitter@boria_a

Scarpe rosse per dire basta al femminicidio (foto Ansa)

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