lunedì 20 aprile 2015

L'INTERVISTA

Ana Cecilia Prenz: così ho attraversato il mare in bicicletta, dall'Argentina, alla Jugoslavia, a Trieste...



La Jugoslavia, l’Argentina, l’Italia. Tre paesi s’incrociano nella famiglia e nella vita di Ana Cecilia Prenz Kopušar. Identità, culture, lingue, trasferimenti e passaggi, in cui la sua storia personale attraversa i momenti cruciali di quella del ’900: la dittatura argentina, Tito, la dissoluzione e le guerre civili nei Balcani, le tensioni politiche degli anni ’70 in Italia.

“Cruzando el río en bicicleta”, che Ana Cecilia, figlia dello scrittore Octavio Prenz, ha pubblicato in spagnolo per l’editrice argentina Libros de la talita dorada (pagg. 98) è il diario, intriso di nostalgia, di una bambina che diventa giovane donna attraverso un’esperienza di formazione unica e straordinaria e, insieme, la cronaca di epoche e mondi che tragicamente si dissolvono sotto i suoi occhi, lasciando cicatrici nel cuore. È il racconto di un triplice strappo, di uno spaesamento e delle difficoltà di ricominciare la vita altrove, conservando dentro di sè le persone, le lingue, i suoni incontrati e assimilati, come parte della propria identità.
Il libro - che nel 2016 uscirà in italiano per i tipi della neonata editrice triestina Vita Activa - viene presentato oggi, alle 17.30, al Caffè San Marco dall’autrice, docente universitaria a Trieste, insieme al critico Enzo Santese e con intermezzi musicali e letture di Felipe José Kopušar Prenz. Ne parliamo con Ana Cecilia Prenz.

Ana Cecilia Prenz Kopušar (foto di  Francesco Bruni per Il Piccolo)
.

Attraversando il fiume in bicicletta, perchè questo titolo?
«C'entra con mia nonna istriana, Maria, immigrata tra le due guerre a Ensenada, in Argentina. Lavorava in una fabbrica di salumi dall’altra parte del fiume e ogni giorno doveva attraversare un braccio del Rio de La Plata su una piccola barca. Quando ci entrava, gli uomini, dal basso, le guardavano le mutande, o almeno era quello che lei percepiva. Si sentiva infastidita da quegli sguardi e sognava di attraversare il fiume in bicicletta, galleggiando. Un sogno che raccontava spessissimo e che nel libro è l’immagine del mio andare e venire da uno spazio all’altro, anche con la testa».
Lei e la sua famiglia fuggite dall’Argentina nel 1975...
«Già nel ’73, prima della dittatura, quando Perón tornò in carica, poi morì e andò al potere sua moglie, la situazione si era fatta confusa e poi era precipitata. Aveva cominciato a funzionare la Triplice A, Alianza Anticomunista Argentina, che reprimeva chi non era d’accordo. Mio padre era nelle “liste nere”, aveva ricevuto minacce di morte. Una sera ci accorgemmo che una di quelle macchine senza targa che giravano per il paese era parcheggiata nel nostro garage, in attesa che tornasse. Mi ricordo mia madre, inginocchiata, che sbirciava dalla finestra. Già da tempo mio padre non dormiva in casa e comunque mai nello stesso posto. Molti nostri amici accademici erano già andati via. Papà ci precedette e arrivò a Belgrado».
È vero che andava in una scuola speciale in Argentina?
«In quegli anni i paesi latino-americani vivevano una stagione di grande fervore. I miei erano genitori giovani, di sinistra, amavano la sperimentazione. Mi avevano iscritto al Centro pedagogico di La Plata, una scuola senza aule nè programmi prestabiliti, dove ogni bambino, a prescindere dall’età, si univa a un gruppo secondo le tematiche che gli interessavano. Studiavamo i classici greci e l’intera scuola era in fermento, tutti facevano ricerche sulla Grecia. C’era molta libertà, tutto era “troppo”. Perchè, all’estremo opposto, avevamo una maestra che non voleva si dicessero parolacce e, se accadeva, ci lavava la bocca col sapone».
Lei scrive: i miei non mi hanno mai fatto sentire il peso dell’esilio...
«Nella mia famiglia c’è una storia politica di esilio che è drammatica, ma c’è anche una storia di fatto. I nonni paterni erano istriani, in casa si respirava una vicenda europea. Io sono nata a Belgrado, dove i miei genitori sono rimasti tre anni prima di andare in Argentina, dov’è nata mia sorella Betina. Venire a Belgrado, quindi, coincideva con questa prima loro permanenza, era un “esilio”, ma anche un “ritorno”».
Primo ostacolo: la lingua.
«Avevo undici anni, all’epoca, Betina sette. I miei erano “sportivi”, non si sono mai fatti problemi su dove ci avrebbero inserite. Pensavano che eravamo piccole e quindi avremmo comunque imparato. I primi mesi siamo rimaste mute, poi Betina è andata in prima elementare e ha cominciato subito a scrivere in cirillico. Io ero in prima media e copiavo quegli strani segni dalla lavagna. In tre, quattro mesi, abbiamo imparato la lingua. Per me rappresentava un ritorno alle origini, mi sono sempre sentita belgradese. Tornare lì era recuperare il mio passato».

Ana Cecilia con il figlio Felipe José Kopušar Prenz (foto Bruni per Il Piccolo)

Quante lingue si parlavano a casa sua?
«I miei nonni provenivano da un paese vicino Pisino, erano cresciuti con l’impero austro-ungarico. In Argentina parlavano nel loro dialetto istriano misto allo spagnolo. Mia mamma è argentina da più generazioni, ma di origini spagnole e, in qualche ramificazione, anche francesi e indigene. Quando erano fidanzati, Octavio, mio padre, voleva conoscere il paese dei genitori, ma le famiglie li avrebbero lasciati partire solo se sposati. Sono venuti in Europa, hanno viaggiato per un anno, poi Octavio ha avuto un incarico da lettore a Belgrado. Lì mia mamma ha continuato a studiare letteratura italiana, ma in serbo-croato».
Nel ’79 avete lasciato anche la Jugoslavia.
«Si capiva che qualcosa non andava nel migliore del modi... Trieste fu una scelta casuale: era vicina alla Jugoslavia e la mentalità italiana era vicina a quella argentina. Mio padre venne a informarsi sulla possibilità di insegnare alla Scuola interpreti, dove allora era preside il professor Ferencic. Ebbe l’incarico e per un anno viaggiò su e giù da Belgrado a Trieste, poi ci trasferimmo tutti».
Uno shock?
«Sì, l’impatto fu molto duro, molto difficile. Venivo da un contesto socialista e mi ci identificavo, mi trovavo bene, mi piaceva quel mondo. Trieste era molto più stratificata, con livelli sociali diversi. Venivo dalla Jugoslavia, un paese che non è mai stato accettato completamente, non parlavo italiano. Ero argentina o jugoslava?, non si capiva. Mi iscrissero al liceo Dante, il professor Ferencic aveva detto che era la scuola migliore. I miei non credevano che il fatto di essere straniera costituisse un problema, invece fu così. Già la prima settimana di scuola comunicarono loro che sarei stata bocciata».
E così tornava a Belgrado per “riossigenarsi”, come scrive.
«Il libro parla della mia vita, ma è un pretesto. È chiaro che chi non ha attraversato certe stagioni le interpreta in modo diverso, la nostra è un’epoca di stereotipi. Il libro parla di un mondo in cui si viveva e si viveva bene, nei miei ricordi di adolescente era meraviglioso. Non so se oggi sia così ricco di stimoli come quello che ho conosciuto io. L’impatto con la scuola italiana fu repressivo, intendo da un punto di vista intellettuale. Passai al liceo Petrarca: fui bocciata anche lì, ma volutamente. Intanto avevo imparato l’italiano. Mi iscrissi alla prima sezione del Linguistico e sono stati anni meravigliosi».
La sua vita è riflessa nei suoi documenti...
«Il certificato di nascita è in cirillico. In Jugoslavia valeva lo ius sanguinis, quindi c’è scritto “argentina”. In Argentina vale lo ius soli, infatti sulla mia carta d’identità in spagnolo c’è scritto “jugoslava”. A 18 anni sono diventata apolide. Durante la dittatura in Argentina avevo perso la nazionalità e sarei dovuta tornare lì per un anno per riacquistarla. Ma i nonni istriani possedevano un passaporto italiano, non avevano mai sentito la necessità di cambiare nazionalità. Grazie a loro sono diventata italiana».
Così, alla fine, anche Trieste è diventata sua.
«Certo, appartengo a questa città. Gli anni del Petrarca mi hanno insegnato a pensare a “ventaglio”, a non affrontare mai le questioni da un unico punto di vista. Eravamo un gruppo di studenti inquieto, ci ponevamo tantissime domande. E Trieste è una città apparentemente chiusa, ma di ampio spettro, offre la possibilità di vedere le cose da tante prospettive. Finita la dittatura l’Argentina invece mi sembrava piatta, dopo anni di silenzio i giovani erano inquadrati».
Nella sua tesi di laurea, Stanislavskij, così studiato in Argentina, le ha permesso di riconciliare i suoi mondi.
«In tutto quello che faccio ho sempre cercato di unire i miei tre mondi, Jugoslavia, Argentina e Italia. Li vorrei vivere contemporanemante. Di recente ho detto a mio figlio: esiste la parola “terbiqua”? Ecco, io sono così. Il mio libro parla della sofferenza dello spostamento, del dolore di lasciare una parte di sè altrove. O la porti dentro e la fai vivere o questa parte resterà sempre una mancanza».
@a_boria

Nessun commento:

Posta un commento