lunedì 21 gennaio 2013

IL LIBRO

La fabbrica delle celeb, da Baudelaire a Lady Gaga


 
La scrittrice Nancy Cunard (1896-1965)





 Kate Moss, volto e corpo dell'«heroin-chic»: regina delle tendenze anche dopo la foto mentre sniffa coca. Madonna sigillata nel bustier dalle coppe a imbuto di Jean-Paul Gaultier, per il Blond Ambition World Tour del 1990. Amy Winehouse con gli occhi bistrati e la pettinatura da schiava romana, riproposta in fotocopia da Karl Lagerfeld sulla passerella di Chanel. Sarah Jessica Parker e il Cosmo-style di Manhattan in Sex&TheCity, ancora stra-citata dopo ben sei stagioni tv, implacabilmente replicate, e due film dimenticabili. Lady Gaga, star del travestimento kitsch, così potente e trasgressiva da ispirare una collezione di Victoria's Secret, lingerie osé per tutte le tasche made in Taiwan. E poi lui, il modello serbo Andrej Pejić l'«ibrido meraviglioso tra Brigitte Bardot e David Bowie», che passa dalle passerelle maschili a quelle femminili con la sua perfezione senza sesso: immagine di un'epoca, per scomodare il sociologo Zygmunt Bauman, in cui i confini si liquefanno, anche tra maschile e femminile.

 
Il modello Andrej Pejić


Cantanti, top-model, attrici, performer. Tutti con una caratteristica in comune: l'essere icona. Dopo cinema e moda, grandi serbatoi di immagini per buona parte del '900, vedi i binomi Audrey Hepburn e Givenchy o Grace Kelly nel "new look" di Christian Dior, oggi sono i riflettori di passerelle e palcoscenici a offrire un monumentale catalogo di trucchi, abiti, pose, atteggiamenti da imitare. In una parola: inspirational.
"Patterns of culture" le definisce il filosofo Edgar Morin, ovvero le star come modelli culturali, che fanno e impongono tendenze, influenzano gli stilisti, adottano gli street-style e li fanno diventare di massa. Nel 2008, Lagerfeld ha tratto spunto da Amy la maledetta e, nello stesso anno, la cantante, "riprodotta" con parrucca e un'asfaltatura di eye-liner dalla modella Isabeli Fontana, è finita sulla copertina di Vogue France. Dolce & Gabbana sono stati conquistati dal fascino dorato di Marilyn per la collezione del 2009, 
è andato ancora più indietro, scegliendo un'immortale e altera Katharine Hepburn.
Un tempo gli atelier fotografici, oggi la rete. L'icona nasce con la riproducibilità dell'immagine, a beneficio dei fan. L'"influencer" più nuova viaggia on-line, a opera di smanettatori scatenati che rilanciano planetariamente accessori e outfit, non sempre di buon gusto. Anna Dello Russo, giornalista di moda di lungo corso, ex direttrice di Vogue Uomo e consulente creativa di Vogue Giappone, è diventata solo di recente fenomeno di massa grazie alle sue foto rilanciate sui social network dai blogger appostati fuori dalle sfilate. Stylist di se stessa, si cambia in auto tra una passerella e l'altra, per farsi immortalare in continue puntate del reality modaiolo digitale. Lo facevano, in fondo, anche le dame e le principesse romane per attirare l'attenzione di Gabriele D'Annunzio e guadagnarsi così l'agognata citazione sulle sue cronache mondane per la "Tribuna".


 
Anna Dello Russo



L'immagine è sempre all'origine del mito. Lo racconta Federica Muzzarelli, docente di Fotografia e cultura visuale all'Università di Bologna, nel suo saggio "Moderne icone di moda" (Einaudi, pagg. 244, euro 20,00), dove, attraverso l'analisi di alcune "fashion mass icons" - l'attrice Cléo de Mérode, il poeta Baudelaire, il ballerino Vaslav Nijinsky, la scrittrice ribelle e "negrophile" Nancy Cunard, la fotografa e autrice di reportage Annemarie Schwarzenbach, prima crossgender di fama, l'eccentrico snob D'Annunzio, fashion blogger ante litteram - in un continuo rimando tra divismo di ieri e di oggi, indaga come nasce la star. In una società, spiegano i saggi di Guy Debord e Jean Baudrillard, il cui l'immagine vale più della realtà stessa e per la quale l'immagine di massa costituisce la principale merce di scambio. I sei personaggi indagati hanno lanciato tendenze - nero, esotismo, feticismo, eccentricità, sesso incerto - che moda e showbiz saccheggiano ancora.

 
Annemarie Schwarzenbach


All'alba del divismo pop e agli albori del '900 c'è l'immagine di Cléo de Mérode, la prima a sfruttare l'era fotografica per diventare fenomeno collettivo. Non è nè intensissima nè dotatissima sul palcoscenico, ma sa giocare coi feticci: una catenella legata più volte intorno al collo diventa elemento di riconoscibilità sul grande pubblico e richiamo sessuale, come molti "body-pieces" che Lady Gaga utilizza nelle sue performance. In un'epoca che ama i capelli gonfi, Cléo se li acconcia a bande piatte sul davanti per poi raccoglierli in trecce basse sulla nuca: come la cotonatura della Bardot, la testolina di Twiggy, l'alveare della Winehouse, la massa color miele di Farrah Fawcett in Charlie's Angels, i capelli sono veicolo di immaginario erotico e potente strumento di desiderio. Il viso e il vitino di vespa di Cléo finiscono su calendari, cartoline, scatole di sigari, sigarette e altri gadget pubblicitari, in un trionfo iconico, favorito dalla riproduzione meccanica delle foto.


 
Cléo de Mérode


"Celeb" prima che la parola diventasse di moda? Certamente due narcisisti come Charles Baudelaire, total black icon, e Nancy Cunard, scrittrice inglese paladina dei diritti civili dei neri e dell'african-style: entrambi sono ben consapevoli dell'impatto che i loro look hanno su fan e adoratori. Lui coltiva il suo dandysmo maniacalmente, ossessionato da abiti e trucco, lei gira con bracciali d'avorio fino alle ascelle, manipolando i media che impazziscono per la sua immagine di donna fatale e sessualmente disinibita. Entrambi, diremmo oggi, dei performer.
L'immagine, e la sua moltiplicazione, ha costruito il mito anche di Annemarie Schwarzenbach, vissuta tra il 1908 e il 1942, l'ispiratrice della prima collezione di prêt-à-porter di Antonio Marras che la scopre attraverso "Lei così amata", il bel libro di Melania Mazzucco. «Strano miscuglio di uomo e di donna... non un essere vivente, ma un'opera d'arte», ha detto della Schwarzenbach la fotografa Marianne Breslauer, che le scatta un famoso ritratto a Berlino nel 1933.
Prolifica e ricca scrittrice svizzera, sempre in abiti maschili, tormentata e drogata, Annemarie è fotografa lei stessa e quindi ben conscia della potenza dei mezzi di comunicazione visiva: il suo stile lesbo-chic, ancora una miniera per stilisti e designer, ha segnato il modernismo visivo del '900.
Tanto più che la confusione dei generi e l'iconografia transgender, di cui oggi è testimonial il sublime modello Andrej
Pejić, continuano a suggestionare la moda. Come per la viaggiatrice Annemarie, anche per lui, nato a Tuzla da madre serba e padre croato, emigrato a Melbourne con la famiglia per chiedere asilo politico e infine naturalizzato australiano, lo sconfinamento geografico ne suggerisce un altro: quello tra i due sessi.
twitter@boria_a

Federica Muzzarelli

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