lunedì 21 marzo 2016

 L'INTERVISTA

Stefano Pace, sovrintendente del Teatro Verdi di Trieste: "Inaugureremo l'Opera di Dubai"


 
Il sovrintendente del Teatro Verdi di Trieste fotografato da Parenzan






Centottanta persone. Orchestra, coro, solisti, tecnici e staff. L'intero teatro Verdi di Trieste si prepara a trasferirsi per un paio di settimane a Dubai dove, dal 30 agosto al 5 settembre, inaugurerà la Dubai Opera, centro di eccellenza per le arti dello spettacolo di tutto il Medio Oriente, un enorme edificio polifunzionale che accoglierà duemila spettatori. Il Verdi sarà protagonista di cinque serate, in cui eseguirà “Les pecheurs de perles” di Bizet per la direzione di Donato Renzetti, “Il barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini con la bacchetta di Francesco Quattrocchi e un concerto sinfonico con pagine d'opera.




 

 
"I pescatori di perle" di Bizet, una delle opere che il Verdi eseguirà a Dubai, diretta da Donato Renzetti



Al momento, il futuro teatro a Dubai è un cantiere in fermento, dove lavorano ottocento persone al giorno, ma di qui a qualche mese, nelle giornate inaugurali, attirerà su di sè gli occhi e la stampa di tutto il mondo. E per il Verdi sarà una straordinaria occasione di visibilità internazionale, di cui il sovrintendente Stefano Pace, che festeggia il primo anno alla guida del teatro, è legittimamente fiero. «La Dubai Opera si trova accanto alla Khalifa Tower che, per un certo lasso di tempo, è stata l’edificio più alto al mondo» dice Pace, architetto, arrivato a Trieste dalla direzione tecnica della Royal Opera House Covent Garden a Londra. «Quella del Verdi sarà la prima produzione ospitata. Un’occasione eccezionale per veicolare l’immagine della regione. Ho avuto contatti con la rappresentanza della Camera di commercio italiana a Dubai e con le imprese friulane che lavorano là. Abbiamo cominciamo un discorso a lungo termine». 

La nuovissima Opera di Dubai che, da settembre, accoglierà duemila spettatori


Perchè le imprese? «Per far comprendere l’utilità del teatro come veicolo d’immagine. Il “Verdi” è una realtà produttiva, un’impresa come le altre che dà lavoro a 242 persone, molto importante per definire la qualità del territorio. Questo discorso di proiezione internazionale attraverso il “Verdi” interessa tutta la regione. Imprese-cultura è un binomio chiave nel mondo, anche se in qualche caso sembra poco ortodosso. Uno degli sponsor più importanti della Tate di Londra, per esempio, è BP. Noi non vogliamo andare dagli imprenditori col cappello in mano, vogliamo invece creare un’integrazione che giovi a entrambi i partner. Il Verdi è uno dei teatri più importanti d’Italia e ha un’immagine di serietà, qualità, capacità di novità che si sta riscoprendo».

Com’è avvenuto il contatto con Dubai? Non sarete stati gli unici... «Beh, i competitors ci sono sempre. Ma siamo stati il teatro che ha risposto meglio alle loro esigenze in termini di flessibilità, efficacia e capacità di adeguarsi ai tempi. Personalmente ho esperienza di aperture di grandi teatri, ho partecipato alla progettazione e costruzione del teatro nazionale di Pechino, al restauro del San Carlo di Napoli. Do fiducia. L’equipe che ci sarà a Dubai aveva lavorato anche a Covent Garden, abbiamo già un linguaggio comune. Questa tournée non è una vacanza. Aprire un teatro è una delle avventure più faticose, si lavora in mezzo alla polvere, in un cantiere, con servizi non finiti. Noi spostiamo un prodotto finito in una scatola vuota. Ci sarà da adattarsi, ma il teatro ha risposto con entusiasmo e dedizione».


 
Il sovrintendente Stefano Pace fotografato da Massimo Silvano per Il Piccolo al Teatro Verdi di Trieste


Cosa si aspetta da questa trasferta? «Che si capisca che il Verdi non ha un’area di espressione limitata, che è un formidabile veicolo di immagine per chi si vuole associare al teatro e condividere un percorso su progetti mirati, dai quali si avrà un ritorno che ha lo stesso valore del contributo versato. È uno scambio merci, una reciproca utilità. Dubai è avida del savoir faire italiano, della nostra eleganza e del nostro gusto. Non basta l’opera. Io credo che la cultura sia un valore assoluto, ancora purtroppo poco sfruttato nel nostro paese, che deve dare un risultato economico. In passato si largheggiava e le imprese ci hanno visto come mendicanti o “sprecaccioni”. Ora non produciamo più debito, siamo molto seri con i nostri conti. Un partenariato con noi più dare benefici che molti imprenditori non sospettano».


 
Il cantiere dell'Opera di Dubai: ogni giorno ci lavorano ottocento persone


 


 Si è mai detto, in quest’anno, “ma chi me l’ha fatto fare di lasciare Covent Garden...?”. «Non ho mai optato per la comodità. Sono stato dodici anni all’Opera di Parigi, poi a Valencia, al San Carlo di Napoli, alla direzione artistica del Bellini di Catania, alcuni mesi a Genova e poi a Londra. Ci sono sempre momenti di sconforto. Qui mi arrabbio quando le cose non accadono velocemente quanto vorrei. Avrei voluto fare molto di più, conoscere tutte le potenzialità umane del teatro per valorizzarle al meglio. Ma se fossi completamente soddisfatto mi annoierei, vorrei andar via. E non credo che ne avrò il tempo. A Parigi gestivo 700 persone e un budget superiore a quello di qualsiasi fondazione lirica italiana. Ma ho sempre detto che sarei tornato in Italia se mi avessero offerto una sovrintendenza. Trieste era un’occasione più semplice e invitante di altre. Dopo un anno, siamo in crescita. Godo ancora di un certo consenso ed entusiasmo. Quando propongo qualcosa, molti mi dicono: proviamoci. Direi che il bilancio è positivo».

Di Londra che cosa rimpiange? «La cultura del mecenatismo della società britannica. Sono molto generosi. E molto ricchi, soprattutto intorno a Covent Garden. Rimpiango la leggerezza e la fluidità amministrativa e la capacità consociativa nei progetti».


Un risultato che si riconosce e uno che non ha ancora portato a casa. «Aver tolto un velo di polvere all’immagine del teatro che tanti giovani avevano. Aver destato attenzione, sorpresa. Più nella forma che nei contenuti, che ancora non hanno l’aspetto che vorrei. Ho fatto debuttare cantanti giovani in ruoli difficili, anche se non c’è ancora continuità e omogeneità. Dobbiamo ancora ristabilire la confidenza col pubblico, i nostri risultati sono migliori delle due stagioni precedenti, ma non come quelli di dieci anni fa. Nessun rimpianto, perchè niente è irrecuperabile. Sono contento di aver cambiato l’immagine del Verdi in poco tempo, ma il meglio deve ancora venire».



 



Cosa non le piace di Trieste? E che cosa le piace? «Molte cose sono vere nel ricordo. Città musicalissima? Senz’altro. E colta. Ma vive di questa eredità, che sta consumando, forse è già consumata. Finiti gli intereressi, si comincia a mangiare il capitale. Mi piace la qualità della vita, una delle più alte, mi piacciono le possibilità che ha la città. Non mi piace un certo fatalismo. Chi sta bene come sta ha difficoltà a proiettarsi nel futuro. Un esempio: quando abbiamo ridotto i tamburini sul giornale c’è stata una bella protesta, poi abbiamo ricalibrato il problema. Purtroppo le generazioni 35-55 sono completamenti assenti dal teatro. Così abbiamo adottato tutti i sistemi di comunicazione internet, sui social media. Siamo andati a cercare pubblici diversi, anche con binomi a volte desacralizzanti, come con Olio Capitale. Abbiamo cominciato con la pubblicità al cinema, credo siamo i primi in Italia, e con trailer prodotti da noi a costo zero. Il pubblico al cinema non può scappare come da una pagina di giornale o da Internet, e noi vogliamo carpirlo».
 

E del teatro che cosa le piace? «Lo spirito di dedizione e partecipazione della maggior parte della gente che ci lavora. L’edificio è affasciante, è rimasto più o meno intatto. Putroppo gli spazi di circolazione di uffici e pubblico si incrociano e mancano ambienti per sviluppare attività che aiuterebbero il teatro, come piccoli ricevimenti offerti dagli sponsor ai loro ospiti». 


Il Don Giovanni di Mozart che ha aperto la stagione 2015-2016 del Teatro Verdi di Trieste il 30 ottobre 2015 (foto Andrea Lasorte per Il Piccolo)



Ci anticipa qualcosa della prossima stagione che state per presentare? «"Zauberflote" e il balletto "Lo Schiaccianoci" con la coreografia di Amedeo Amodio, la scenografia di Emanuele Luzzati e due primi ballerini del New York City Ballet. Stiamo lavorando sulla qualità dei balletti».


 Non c'è pericolo di sovrapposizioni col Rossetti? «Ho conosciuto il direttore Però in anni non sospetti, quando era assistente di Lavia. Mio padre era lo scenografo di Lavia e io ho cominciato a lavorare con lui a quindici, sedici anni. Subito ci siamo parlati e coordinati. Noi non facciamo danza contemporanea, opera musical e musical, il Rossetti non fa operetta. Teniamo le prime in giornate diverse, promuoviamo le locandine l'uno dell'altro, mettiamo insieme progetti e risorse. Noi realizziamo scenografie per il Rossetti...».

A proposito di operetta... «Anche qui si vive di ricordi. L'idea di un festival è tramontata perché i costi sono insostenibili. In giugno avremo il Pipistrello e sarà un momento di verifica. È una nuova produzione, che ha dignità e peso pari a quello delle opere, con un cast notevole. Vediamo se la sala sarà piena per tutte le repliche e quanti sono effettivamente gli interessati. Il linguaggio dell'operetta è obsoleto, difficile da attualizzare, il repertorio è superato. Spesso si è pensato che bastavano cantanti buffi e divertenti, anche se non avevano voce. Il genere è scaduto.
“Il paese dei campanelli”, “La principessa della czarda”, “Cincillà” li trovi solo nei teatrini, non c'è pubblico per sostenerli».».

Lei ha fama di stakanovista. Si sente come il direttore della reggia di Caserta? «Lo comprendo e lo inviterei a teatro se non sapessi che non si può muovere. E anch'io prima di prendermi una vacanza devo essere certo che il teatro è a regime. Programmazione a lungo termine, risorse variabili, stare in teatro per sentire come canta il tenore fino all'ultimo... E chiedersi: sono riuscito a dare ai miei clienti cosa si aspettavano da me? Il sovrintendente ha tutte le responsabilità e ne deve rispondere al pubblico. Chi viene a teatro in parte lo spettacolo lo ha già pagato, e anche chi non viene, perché ci sono soldi di tutti. Bisogna dimostrare attenzione».


 Si sente un cervello di ritorno? «No, perché non mi sento uno che è scappato. Se così fosse, non sarei dovuto tornare. Sono un cittadino del mondo, ho doppia nazionalità, a casa, con mia moglie e i figli, a tavola parliamo quattro lingue diverse. Non sono un Ulisse. Avevo un'opportunità ed era in Italia. Spero di rimanere un certo numero di anni per vedere i frutti del lavoro fatto».

twitter@boria_a

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