giovedì 12 maggio 2016

IL LIBRO

 Ada Murolo: amiche a Trieste, separate e riunite dalla Storia






Vite di donne si incrociano in quel 4 novembre 1954, quando Trieste festeggia con la parata delle forze armate il ritorno all’Italia. In piazza Grande, tra le migliaia di persone confluite da tutti i quartieri, nell’ondeggiante e tumultuosa marea umana, tra grida e spintoni, sotto il palazzo del Governo gli occhi di Alina e Berta si sfiorano senza riconoscersi, gli uni opachi e persi, gli altri accesi e guardinghi. È un paio di orecchini ad agganciarli per una frazione di secondo, nel baluginio dei piccoli trifogli di brillantini e oro rosso che Berta porta ai lobi e ai quali Alina si aggrappa, dal fondo torbido della memoria, per ricostruire il suo passato, per rimettere in fila volti sbiaditi, sovrapposti.
In “Si può tornare indietro” (pagg. 205, euro 16,00, in libreria per le edizioni Astoria), Ada Murolo, insegnante calabrese vissuta a lungo a Trieste, sceglie di raccontare due esistenze minute che si ricompongono proprio nel giorno in cui anche la grande Storia ricompone nel suo fluire la città contesa, sospesa. Una pagina importante che resta sullo sfondo, perchè sono le vicende delle protagoniste, e delle loro famiglie, a introdurre a poco a poco il passato di Trieste e le sue tante pagine e identità: le leggi razziali, la persecuzione degli ebrei, la Risiera, l’indipendenza delle donne, l’anima slovena, il manicomio. Un dedalo di temi in cui l’autrice si inoltra con intensità, come nelle strade del centro cittadino, in cui i personaggi, e i loro dolori, si incrociano.


La scrittrice Ada Murolo

Berta e Alina. La prima, provocante e sfrontata, figlia di un manovale della Ferriera cacciato per cattiva condotta, rimane incinta neanche ventenne di Bernì, un fante di stanza a Villa Opicina e con lui, dopo essere arrivata fin quasi alla porta di una mammana slovena ed essere scappata per paura, va a vivere tra i campi di Poli di Romagna, sposina testarda e orgogliosa in una comunità familiare contadina di donne sottomesse e abusate, di uomini abbruttiti da fatica, alcol, voglie. Alina Rosenholz, l’amica del cuore, eterea e ben educata, di cui Berta non conosce nemmeno la fede, sparisce da un giorno all’altro con la famiglia. Un rastrellamento nazista inghiotte papà Guido, rigattiere del ghetto, e il figlio Manuel, mentre Alina e mamma Nora, tradite da chi aveva dato loro rifugio, finiscono in Risiera.
Dieci anni dopo, in quella mattina luminosa di festa, Berta è di nuovo a Trieste, con due bambine e un matrimonio interrotto. Alle spalle una famiglia che non l’ha mai capita, un suocero abituato a trovare soddisfazione sotto le gonne di casa, chiunque le porti, e un marito innamorato ma debole, che la guarda uscire da sola e dubita della sua fedeltà. Anche Alina è in piazza, scappata dal manicomio di San Giovanni dove la festa collettiva ha ridotto il numero degli infermieri, con un turbine di voci e ricordi che le squassa la testa e un numero tatuato sul braccio, perchè il suo nome lo riconosce ma non lo sa più pronunciare.
È il brillare degli orecchini a dire a Berta e Alina che si può tornare indietro. Smettere di annullarsi per paura del futuro e riprendersi la vita, smettere di avere paura del passato e riconoscere il proprio posto nel mondo. Entrambe, Berta e Alina, nella giornata in cui Trieste esulta, salgono verso il manicomio di San Giovanni. Proprio lì, in quello che ancora per due decenni sarà un luogo negato a qualsiasi libertà, dove la vita passa di lato, per loro, amiche separate dalla Storia, il tempo, tornando indietro, ricomincerà a scorrere.

@boria_a
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