sabato 28 maggio 2016

 IL LIBRO

Nell'altra Italia, Topolò è un simbolo delle nostre paure




Antonello Caporale, giornalista de "Il Fatto Quotidiano"




Ci sono storie che restano nei taccuini di un cronista, perchè non entrano nello spazio fisico di una pagina. Dettagli, luoghi, momenti giudicati “superflui”, “non utili” “non imprescindibili” per l’articolo, ma che, magari riletti a distanza di tempo, raccontano altre storie. E come uno scarto alimentare può diventare una nuova ricetta, anche più gustosa dell’originale, da questi appunti sedimentati sulle pagine può cominciare un altro viaggio, che ci mostra una geografia diversa del paese in cui viviamo.

È successo ad Antonello Caporale, per ventidue anni giornalista di “Repubblica” e oggi al “Fatto Quotidiano”, autore di molti libri, di un docufilm e di reportage alla ricerca dei mali d’Italia. A distanza di tre anni dall’ultimo viaggio, Caporale ha ripreso in mano la sua “valanga di taccuini”, si è soffermato sulle note e le riflessioni, sui posti e sugli uomini, e ha cominciato a scrivere “Acqua da tutte le parti” (Ponte alle Grazie, pag. 295, euro 18,00), un percorso con le spalle al mare, verso l’interno del paese, scoprendo - racconta - «cose orribili e meravigliose, personaggi nefasti e straordinari, che danno il senso di ciò che siamo», dell’Italia che eravamo e che siamo diventati, che è piena di falle ma resta a galla.





Quindicimila chilometri da un capo all’altro dello stivale, annotando vagoni e binari morti, come a Gioia Tauro per esempio, dove la capotreno vende i biglietti per i bus, o, al contrario, buchi spaventosi nella montagna fragile e nelle casse pubbliche, altrettanto dissestate. Succede nella valle del torrente Polcevera, per scavare la sesta linea di valico di una Genova che intanto sprofonda nell’acqua e nel degrado geologico. Si fa la piscina, mentre piove dal tetto: sei miliardi e 200 milioni di euro per far arrivare più in fretta le merci - quando tutto sarà finito, se mai lo sarà - verso il mare del Nord.


Eccola quest'altra Italia, di mobilità interrotta, di moncherini di ferrovie, di sprechi, di devastazioni. «In cui - dice Caporale - «siamo più poveri e più disgraziati. Abbiamo territori vergini dove si potrebbe vivere meglio e con meno soldi e basterebbe un treno, che non è solo un veicolo ma anche un connettore di coscienze, a portarci nella metropoli a lavorare». Invece, mentre paesi si spopolano e case crollano, a Rosignano Solvay la gente passeggia su una spiaggia che pare tropicale ed è tutta chimica, si rilassa in uno scenario da spot dove niente è come sembra e il bianco è tossico, «perchè - spiega Caporale - oltre alla coscienza del tempo, abbiamo perso la misura della nostra salute e delle condizioni del nostro sviluppo».


I tropici tossici di Rosignano Solvay


Da queste parti, nel Nordest che non è più tanto da bere, il giornalista ha fatto tappa nel triangolo degli outlet, Mestre-Marghera-Villorba. E anche qui ha trovato spunti per il suo viaggio "amaro e indispettito". Chilometri di rotatorie commerciali, orbite spaventosamente vuote, dove la gente va solo a prendere l’aria condizionata, un’autostrada deserta «alla frenesia della ricchezza che non trova nemmeno la capacità di assestarsi». Nè il tempo per essere metabolizzata e fruita, «perchè il tempo di Internet, della comunicazione istantanea, non risolve la nostra esistenza. I nuovi lavori non hanno il valore economico di quelli di prima, siamo frullati in questa condizione e abbiamo paura del futuro».


Sulle tracce della paura, Caporale è arrivato a Topolò, nelle valli del Natisone, quel borgo che lui chiama una “criniera di pietre” in bilico lungo la linea di confine con la Slovenia, per decenni il confine tra il mondo comunista e l’Occidente libero, prima ancora il confine tra il mondo latino e il mondo slavo. Un borgo di un paio di decine di anime che, con la sua “Stazione” estiva e l’ospitalità agli artisti, si è nuovamente aperto all'esterno. «Topolò - racconta Caporale - è un sentimento, un punto d’arrivo, un punto di vista, un mito. Ci sono luoghi sconosciuti che dovremmo rendere centrali. Topolò è uno di questi, una meta “necessitata”, un monito. Bisognerebbe dire: venite a vedere da dove in passato si guardava il nemico. Topolò è un simbolo, perchè ora, con la crisi economica, siamo nelle stesse condizioni. Lì si è vissuta la paura dell’altro, di un’invasione di umani che verranno a schiacciarci, contro cui costruiamo muri come quello improvviso e imprevisto del Brennero».


 
Topolò, nelle valli del Natisone


Poi una meta friulana, Cassacco, insieme al poeta Pierluigi Cappello che, ai tempi del terremoto del Friuli, quarant’anni fa, aveva circa gli stessi anni di Caporale, testimone del sisma dell’Irpinia. Friuli «modello di un voler bene al proprio territorio, di un sentimento, di un attaccamento che altrove non c’è». Ma anche, registra il giornalista, esempio di un mondo contadino cancellato con violenza, dove sono piovuti i soldi e i termosifoni hanno sostituito i camini, i Suv i trattori e gli arnesi del lavoro tramandati da generazioni, e gli ipermercati, le concessionarie, i mobilifici hanno inghiottito la terra. In pochi secondi, mille morti, poi la cesura culturale ed economica. «La ricchezza improvvisa ti dopa, fa cambiare i connotati e diventare più poveri, estranei a se stessi. Dalle mie parti - conclude Caporale - arrivano le patate surgelate... È cambiata l’orografia dei volti, come se avessimo imballato le persone in un mondo nuovo, in centri commerciali senza identità, senza cura, senza parole».


Il poeta Pierluigi Cappello



Gli fa eco Cappello, raccontando la vicenda di un uomo, classe 1930, traumatizzato dal sisma, cui facevano la logopedia in italiano. In friulano nominava le parole con precisione assoluta, in italiano - lui, con appena la terza elementare - ne conosceva forse cinquecento. Questo è stato, anche, il terremoto: la scomparsa repentina di una grammatica interiore, la capacità di nominare e di andare dentro le cose. L’erosione di un patrimonio, di un sapere umanistico.
@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento