venerdì 24 febbraio 2017

L'INTERVISTA

Il cronista e l'ex camorrista raccontano l'Italia sepolta dai rifiuti (e i rifiuti sepolti)








Nunzio Perrella, camorrista pentito, è un nome che ai più non dice niente. Quando venne arrestato, nel ’92, decise di diventare collaboratore di giustizia. E cominciò a parlare. Non del traffico d’armi e droga, i reati che gli venivano imputati, ma del gigantesco sistema del traffico di rifiuti in Italia. Interrogatori fiume che scoperchiarono un calderone infernale: luoghi, nomi, aziende, politici, imprenditori, camorra. Connivenze coscienti, compiacenze politiche, interessi a tutti i livelli, truffe, falsificazioni.

È in quel momento che Perrella avrebbe dovuto diventare noto a tutti, perchè per primo parlava della “munnezza” connection. Non è stato così. Ventidue anni dopo, pagato il suo conto con la giustizia e uscito dal programma di protezione, Nunzio Perrella è un uomo libero e molto arrabbiato. Perchè quelle sue rivelazioni, così dettagliate, avrebbero dovuto far saltare un business consolidato di scempio del territorio e attentato alla salute pubblica, che invece ha continuato a esistere e prosperare. Come se nulla fosse successo. Come se niente fosse stato detto.


È in questo momento che l’ex camorrista Perrella incontra Paolo Coltro, giornalista in pensione con una lunga carriera nel gruppo Finegil. Si conoscono, si parlano per un anno - anzi, Perrella parla e Coltro domanda - e la storia di due decenni prima torna fuori. E diventa un libro, “Oltre Gomorra. I rifiuti d’Italia” (CentoAutori, pagg.255, euro 15). Non un saggio, ma un resoconto spietato, sconfortante, chirurgico del peggiore stupro dell’ambiente del secolo. Il quadro di un’Italia, tutta, che si muove, vive, lavora su un mare di rifiuti tossici: intombati ovunque. E per questo, in tante regioni, si muore.



Nunzio Perrella, camorrista pentito
 
Paolo Coltro


Coltro, com’è avvenuto il suo incontro con Nunzio Perrella?
«Perrella ha vissuto e lavorato molti anni nel Nord Italia. Quando ha finito il suo percorso e pagato il suo debito, nel 2014, dopo ventiquattro anni tra galera e domiciliari, ha visto che nel frattempo non era successo niente. Era incazzato nero e cercava qualcuno per raccontare la sua storia. Ci siamo visti per un anno: parlava in napoletano stretto, io registravo, prendevo appunti, mi documentavo. Il suo nome non è quello di un camorrista famoso, non ne sarebbe uscita una biografia. Quello che raccontava, invece, era giornalisticamente interessante perchè ti portava in altri territori, scopriva altre magagne. Questo a me interessava: cercare di capire perchè, dopo la sua denuncia, per vent’anni tutto è rimasto come prima».


Che impressione le ha fatto Perrella? «È un uomo che appartiene a un mondo in cui si ragiona in un modo che neanche ci immaginiamo. Non ha istruzione, forse l’unico libro che ha letto è quello che abbiamo firmato insieme. La prima volta che ci siamo incontrati, a Vicenza, è arrivato con un guardaspalle, un omone che ha detto essere suo nipote, con strani rigonfiamenti sotto le ascelle. Poi ci siamo visti da soli, nei baretti di periferia: non raccontava balle, lo sapevo, ma io dovevo verificare tutto, documentare. Nel libro c’è una parte sulla sua biografia che mi è piaciuto scrivere. Ma Perrella è un ex delinquente praticamente sconosciuto, diventa interessante se lo guardiamo sotto il profilo dell’uomo che ha rivelato qualcosa che poteva essere una bomba e invece così non è avvenuto».


È vero che è stato il primo a far entrare la camorra nel business dei rifiuti? «Lui faceva impermeabilizzazioni e lavorava in subappalto per la Soavi Asfalti di Vicenza. Quella ditta riciclava di tutto, anche oli esausti che adoperava per fare sottofondi stradali pasticciati, la cosiddetta “pastina”. Di solito li smaltivano i dipendenti, un paio di fusti al colpo. Ma una volta ce n’erano troppi e chiesero a Perrella di portarli a Napoli».


Così venne fuori tutto... «Gli si aprì un altro mondo. I cinquanta fusti non glieli accettarono, perchè nelle discariche entrava solo il materiale degli imprenditori del Nord che erano in affari con i proprietari del sito. Un fiume di denaro che nessuno voleva spartire con altri. La camorra non ne sapeva niente, Perrella scoprì il giro e ce la fece entrare, obbligando i proprietari delle discariche ad accettare anche il suo smaltimento. Lui però voleva fare le cose legali, occuparsi solo del trasporto, perchè già con quello si guadagnava moltissimo. Pensiamo a un rifiuto che parte come “speciale” o “tossico” ed entra in un meccanismo di cambi di bolle e falsificazioni, per cui alla fine viene declassificato, diventa rifiuto normale: smaltirlo costa meno, nelle discariche si butta di tutto, e i guadagni sono altissimi».


Poi però lo presero. «Per traffico d’armi e droga. Fu allora, nel ’92, che cominciò a parlare con i magistrati del traffico dei rifiuti e diventò collaboratore di giustizia. Decine di ore di registrazione, più di cento pagine di verbali: Perrella fa i nomi di oltre duecento aziende coinvolte, elenca circostanze, località, metodi di smaltimento. C’era tutto». 


Sembra incredibile che la camorra ignorasse questo traffico... «Il business era tra gli imprenditori del Nord e quelli del sud che gestivano le discariche. Anzi, gli imprenditori al Nord avevano fatto tutto da soli, all’inizio, riempiendo Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana. Anche il Friuli Venezia Giulia: Perrella parlò di pezzi di strade in Carnia sotto cui c’erano i rifiuti. Quando il Nord fu strapieno, si cominciò a mandare i camion a Sud. E adesso ripartono verso Nord, in un traffico quasi incontrollabile. Eppure dopo l’inchiesta Adelphi, tutta basata sulle dichiarazioni di Perrella, vennero accolte solo dieci su ventuno richieste di rinvio a giudizio, il processo del ’93 si concluse con solo sei condanne per abuso d’ufficio e corruzione, non per associazione mafiosa e, all’appello del ’99, la prescrizione cancellò tutto. Non c’erano norme penali per colpire i reati ambientali e, in mezzo, connivenze politiche, incapacità, ritardi della magistratura».


Quand’è che inquinare diventa reato? «Dopo vent’anni di proposte di legge, nel maggio 2015 viene approvato l’articolo 452 bis del codice penale, reato di inquinamento ambientale, che funziona fino a un certo punto. Per capire come mai c’è voluto tutto questo tempo, basta andare a vedere gli interventi dei partiti in sede di commissione legislativa. Forza Italia continuava a mettere emendamenti per fare gli interessi degli imprenditori... è lì che si annida lo scandalo. La legge poi prevede il “ravvedimento operoso”, che il procuratore Gianfranco Amendola ha definito un’istigazione a delinquere. Ovvero, se chi ha inquinato si offre di mettere tutto a posto, gli si affida la bonifica, un’ulteriore fonte di guadagno».


Nei giorni scorsi sono morti otto bambini nella Terra dei fuochi...
«Questo fa notizia, certo. Ma bisogna risalire alle cause del meccanismo. Il ministro Lorenzin ha detto: “Sono 64 ettari...” Scherziamo? Lì è inquinato tutto. Perchè non ci sono controlli? Percgè la Campania non ha un Registro tumori? Perrella ha raccontato che vicino Napoli, in zona Licola, le case sono state costruite sopra un buco con gli scarti dell’Italsider di Bagnoli e delle ceneri dell’Eni. Il materiale era stato portato dai camion, venti al giorno, per mesi, passando davanti a Carabinieri e Finanza. E loro dov’erano? A chi comprava si faceva sottoscrivere un atto in cui dichiarava di essere a conoscenza di tutto, per evitare cause successive. In questo quartiere oggi abitano professionisti, la borghesia. Si fanno i carotaggi nel terreno, ma cinquecento metri più in là, altrimenti salta il palco. Questo è l’intento del libro: dimostrare che basta che qualcuno, in uno dei segmenti del processo di smaltimento, non faccia il suo dovere, non veda, e tutto va a remengo».



Discarica portata alla luce nella Terra dei fuochi


La magistratura è chiamata in causa? «Prendiamo la discarica Pitelli a La Spezia, proprio sopra il Golfo dei poeti. Il primo a parlare di come la gestiva il suo patrón, Orazio Duvia, è stato proprio Perrella. Si arriva al rinvio a giudizio del 2003 per disastro ambientale e una sfilza di altri reati. L’invaso è definito “imbonificabile”, al punto che anche il ministero dell’Ambiente vuol costituirsi parte civile, ma il magistrato respinge. Dopo otto anni di processo, gran parte dei reati è prescritta. Resta il disastro ambientale, all’epoca sanzionato da contravvenzione, ma in cinquecento righe di motivazione il giudice si addentra nella legge per dire che il reato non sussiste. Tutti assolti. Certo, avrà ragione in punta di diritto, ma va contro la realtà, il senso comune. Ci sono anche queste antinomie, questi paradossi».


Com’è la situazione dalle nostre parti? «Come fai a scoperchiare la terza corsia, da Verona a Venezia? Là sotto c’è di tutto. Come sotto l’A31, Valdastico sud Vicenza-Rovigo. E il parcheggio dell’aeroporto di Venezia, pieno di una sostanza fatta di rifiuti, chi lo toglie? Forse qualche sospetto lo deve far venire anche il passante di Mestre... Speriamo che si salvino la Pedemontana, da Treviso a Vicenza, e la terza corsia tra Venezia e Trieste. Pensiamo ai parcheggi enormi dei centri commerciali: l’industriale riceve una certa somma e dice solo “fate una bella buca...”. Poi, sopra, si butta l’asfalto».

@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento