mercoledì 1 febbraio 2017

L'INTERVISTA

Marina Calculli: "Giulio Regeni vittima della realpolitik"





Marina Calculli




Marina Calculli, studiosa di relazioni internazionali del Medio Oriente, ha vissuto per sei anni da ricercatrice all’estero, tra Siria, Libano ed Egitto. L’esperienza che stava facendo Giulio Regeni la conosce bene, e la sua morte barbara la tocca nel profondo. Quel video che lo riprende per l’ultima volta vivo - dice - è la testimonianza agghiacciante di un divario culturale: da una parte il venditore ambulante che non capisce il meccanismo dei fondi destinati alla ricerca, che pensa allo stereotipo dell’occidentale con tanti soldi, dall’altra Giulio, un ragazzo pulito, genuino, onesto, che si offre di cercare comunque un modo per aiutarlo.

«Ma per quanto gigantesco sia l’equivoco sui fondi - puntualizza Calculli - il vero colpevole è lo Stato egiziano. Le spie si espellono, non si torturano. Nel dibattito italiano, purtroppo, si colpevolizza la vittima e si finisce per giustificare Al-Sisi in nome di una realpolitik da bar. Si dice che Al-Sisi garantisce la lotta ai terroristi, dimenticando che questa sua lotta è a tutti i dissidenti, a tutti gli oppositori del suo regime che vengono incarcerati con accuse di terrorismo. La sua debolezza genera isteria».

Marina Calculli, attualmente assegnista di ricerca all’Università l’Orientale di Napoli e ricercatrice al Middle East Centre dell’Università di Oxford, è la curatrice, insieme al giornalista e scrittore Shady Hamadi, di “Esilio siriano. Migrazioni e responsabilità politiche” (Guerini e Associati, pagg. 190, euro 18,50): una raccolta di contributi di autori diversi sul duplice dramma del popolo siriano, il distacco forzato dalla propria terra e la perdita dello spazio pubblico in cui esercitare il diritto di cittadinanza. Un volume che analizza soprattutto il carattere “politico” della condizione di esule, cominciato ben prima della guerra del 2011 e articolato in diverse forme di fuga, sopravvivenza e resistenza al regime degli Assad.





Dottoressa Calculli, verrà mai a galla la verità sul caso Regeni? «Non verrà e non ne abbiamo bisogno. È tutto chiaro. Al Sisi è ben consapevole che le tecniche di tortura sono una firma, un marchio, portano a una responsabilità ben precisa. La verità è stata offesa e vilipesa anche dall'atteggiamento sciatto nel confezionare finte verità: il movente della gelosia, l’incidente, fino al sacrificio da parte dello Stato di cinque egiziani per creare l’illusione di aver trovato i colpevoli. E noi? Abbiamo ritirato l'ambasciatore, ma non abbiamo fatto grandi pressioni. E il giorno dopo è arrivata la Francia con contratti su sicurezza ed energia. Una realpolitik plateale. L'Egitto può fare a meno dell'Italia, ci sono altri paesi con cui fare affari. Il regime non ha nessun incentivo a chiedere scusa nè ad ammettere le torture sistematiche che tutti i giorni si compiono nelle carceri, una realtà che conosciamo bene ma che è rimasta sottaciuta per interessi politici».


L'Unione Europea ha lasciato sola l'Italia? «L'Ue ha fatto mozioni individuali, ma non ha preso misure unitarie. Nel 2013 Obama disse ad Assad che l'uso di armi chimiche era la linea rossa, dopodiché ci sarebbero stati i bombardamenti. Quando però si seppe che le armi chimiche erano state usate nelle campagne intorno a Damasco, a sorpresa saltò fuori un accordo tra il regime e la comunità internazionale: Assad avrebbe dovuto consegnare alla Nato tutte le armi chimiche del paese. Kerry ringraziò, ma in seguito ci fu l’evidenza di altri attacchi. Questo è il punto: se non ci sono sanzioni efficaci, non c'è neanche l’incentivo a comportarsi meglio. E questo indebolisce tutti per quanto riguarda i diritti umani. È un falso mito che il passaporto europeo ci metta al sicuro. Il caso di Giulio ha messo in luce la vulnerabilità cui gli occidentali sono esposti in certi paesi, che è la vulnerabilità di tutti i cittadini di quei paesi».





E l'Università? «Ma che cosa avrebbe potuto e dovuto fare? Cambridge ha sostenuto la ricerca della verità in tutte le sue manifestazioni. Che cosa può fare un’Università in un contesto dove ci sono responsabilità politiche gravissime, che in altre epoche avrebbero messo a repentaglio le relazioni tra i paesi? Quello che faceva Giulio non era eccezionale, la sua ricerca non era né strana né anomala, molti ne hanno fatte di simili per anni. Cambridge non l'ha mandato allo sbaraglio. Se lo pensassimo, metteremmo in discussione tutta la politica della ricerca. Quello che è eccezionale, invece, è la modalità della tortura». 


L'Europa continua a considerare Al Sisi il minor male necessario? «I processi di transizione democratica sono lunghi. Dopo le dimissioni di Mubarak si era creato nel paese un momento di pluralismo, con l'emergere di varie forze democratiche. Ma, mentre Turchia e Paesi del Golfo arrivavano in Egitto con programmi di training elettorale e fiumi di soldi, l'Unione Europea ha subito abbandonato i rivoluzionari, che avevano invece bisogno di appoggio esterno e di legittimazione. Appena eletto Morsi, l’Ue gli ha stretto la mano perché confermasse gli accordi di Camp David, poi, quando è stato deposto dal colpo di Stato, ha accettato Al-Sisi, senza chiedersi nemmeno come era arrivato al potere. L'Europa avrebbe dovuto sostenere quelle organizzazioni che potevano essere un bilanciamento contro i regimi, stringere legami con gli attori della società. Oggi le disuguaglianze si sono esacerbate e la disoccupazione è cresciuta, è un'illusione pensare che il regime sia stabile e che sia una garanzia per noi».


Tolleriamo i regimi in cambio del controllo sulle partenze dei migranti. Funziona? «No, perché si affronta il problema da un punto di vista sbagliato. Noi pensiamo che il pugno forte risolva la situazione interna e renda le nostre frontiere più sicure. In realtà più cresce il pugno del regime, più cresce l'opposizione interna e questo porta a ciclici momenti di caos con conseguente aumento delle migrazioni».


A Bruxelles si pensa a una linea di sbarramento di navi davanti alla Libia, con la partecipazione di soldati europei... «Cominciamo dai numeri. I paesi dell’Est Europa, che si oppongono alla redistribuzione, hanno poche unità di migranti ogni centomila abitanti. Nel caso dei siriani, tutti i ventotto membri dell’Unione europea ne hanno accolti meno del solo Libano, che ha 4 milioni di abitanti ed è grande quanto l’Abruzzo.. Lì sì che il paese è cambiato demograficamente, ma il Libano è tutto sommato stabile. Al contrario, in Europa si è costruita una retorica dell’emergenza, della crisi, da fronteggiare con le navi. Ancora una volta, invece di guardare la luna, ci si fissa sul dito che la indica. La risposta sul piano della sicurezza non è quella giusta rispetto al Sud del mondo che esplode. I muri non possono fermare la storia, serve un approccio più lungimirante in una dinamica globale».


Veniamo al libro. Avete scelto la parola “esilio” per un motivo preciso. Quale? «Perchè ridà dignità ai migranti, ai rifugiati, ai profughi, agli sfollati. Questi termini sono entrati nel lessico comune, ma come categorie fuorvianti per stigmatizzare i soggetti cui si riferiscono. Per noi il problema sono i barconi, ma i barconi sono più forti di qualsiasi muro per chi non ha niente da perdere e tutto da rischiare. Se non si risolvono i problemi a monte non si possono dare risposte alle migrazioni».


Anche i termini “migranti” e “rifugiati” non sono la stessa cosa... «Certo e per due ragioni. Innanzitutto bisogna evitare la retorica dell’accoglienza indiscriminata, altrimenti si adotta una categoria di analisi che è quella della compassione. Ma qual è la sostenibilità della compassione? Il problema migranti non si affronta con la retorica, ma con politiche di gestione dell’accoglienza. La seconda ragione riguarda le responsabilità politiche che abbiamo verso i rifugiati. I paesi europei alzano muri e stringono accordi con la Turchia: così facendo violano sistematicamente la Convenzione di Ginevra».


La crisi economica in Italia fa crescere populismo e xenofobia. Quali risposte dare? «Il populismo è una spia ciclica di un qualcosa che non va nel corpo sociale, da affrontare in modo consapevole. All’origine c’è la diseguaglianza che cresce sempre di più anche nei paesi occidentali e che è il motivo fondamentale della paura dei migranti. Sono necessarie politiche economiche diverse, che diano risposte a quanti cadono sotto la soglia di povertà, mentre gli Stati rinunciano ad esercitarle e sono sempre più ancillari nei confronti dei potentati economici. Il neo-liberismo ha fallito la sua promessa: non ha portato più ricchezza per tutti, ma l’ha concentrata in un numero ancora più ristretto di colossi».


Gli italiani sono diventati più razzisti? «Sì, ma il razzismo è una spia. Non è un problema culturale, bensì socio-economico».


Il presidente Trump impedisce l’ingresso agli immigrati di alcuni paesi. Che reazioni possiamo aspettarci dal mondo arabo? «Intanto Iran e Iraq hanno già risposto ricambiando la cortesia. È estremamente pericoloso l'impatto culturale che la decisione di Trump potrà avere sulle percezioni dei musulmani. L’odio e la stigmatizzazione collettiva non possono che generare odio e contro-stigmatizzazione. Non a caso a esultare sono stati i gruppi jihadisti che capitalizzano su toni da scontro di civiltà. Questa decisione comunque lascerà un impatto negativo, anche se i giudici dovessero fermare in pochi giorni la decisione di Trump».

@boria_a

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