lunedì 27 novembre 2017

IL LIBRO

Un'intelligenza bestiale? Ce l'hanno gli animali






Siamo davvero la specie animale più intelligente sulla faccia della terra? Possiamo infallibilmente attestarci al top di un’ipotetica scala di valore grazie alle nostre competenze artistiche, scientifiche, tecnologiche, o perchè siamo capaci di altruismo e cooperazione con i nostri simili? Studi scientifici, ma spesso la semplice osservazione di alcuni comportamenti animali, fanno vacillare questa certezza.

Cacatua che costruiscono bastoncini per avvicinare il cibo fuori dalla loro portata, un passerotto infallibile nel riconoscere il suo nido in una fila di tegole identiche, api che si danno al ballo per segnalare alle compagne la presenza e la posizione di una fonte di cibo, un tasso capace di superare ostacoli e aprire chiavistelli per evadere dal recinto, prendendosi gioco del fallimento dei suoi custodi. In sintesi: l’intelligenza delle bestie è spesso bestiale.
A spiegarlo, in “Animali” (Mondadori, euro 16, pagg. 169), sono Cinzia Chiandetti ed Eleonora Degano, che uniscono esperienza accademica e giornalistica in un interessante e curioso volumetto, scientificamente poderoso, ma adatto a lettori di qualsiasi formazione. Chiandetti è ricercatrice nel Dipartimento di Scienze della vita dell’Università di Trieste e docente, tra gli altri insegnamenti, di Cognizione animale. Degano, biologa, ha studiato giornalismo scientifico alla Sissa.



 
Eleonora Degano


Cinzia Chiandetti

Dottoressa Chiandetti, la superiorità umana è in crisi? «Vero. Tutti noi abbiamo in mente una graduatoria intuitiva delle specie animali. Le ordiniamo su una scala: dalle più semplici, come i paguri, alle più complesse come i primati non umani, e noi torreggiamo sul gradino più alto. A questa graduatoria strutturale corrisponde la classifica di intelligenza, per cui non siamo propensi ad attribuire sofisticate capacità mentali agli insetti che posizioniamo sui gradini più bassi, ma riteniamo molto dotati intellettualmente i delfini che sono in alto sulla scala. Eppure, ciascuna specie ha affinato delle abilità specifiche che la rendono adatta ad affrontare al meglio le sfide della propria nicchia ecologica. Come a dire che ciascuna specie è molto intelligente a modo suo».


Gli umani si distinguono per la capacità di pianificare il futuro. Gli animali ce l’hanno? «Diversi studi condotti in laboratorio, dunque in modo controllato, hanno recentemente risposto a questa domanda: varie specie di primati non umani e qualche specie di uccelli, ad esempio, hanno superato i test di pianificazione. Si è visto che possono intenzionalmente conservare uno strumento che servirà in futuro o fare scorte del cibo che troveranno a giorni alterni, così da variare la dieta. Non ci sono altri modi di interpretare questi comportamenti se non facendo riferimento alla capacità di pianificazione. Quindi è una capacità che non ci distingue, no».


Noi tradiamo spesso sentimenti ed emozioni con le espressioni del viso. Vale lo stesso per le bestie? «I volti sono una fonte ricchissima di informazioni e anche altre specie si avvalgono di questi segnali per capire ad esempio se iniziare un’interazione o se sia meglio scappare. Per quanto riguarda le emozioni primarie (paura, rabbia, felicità…) c’è molta continuità tra le specie e spesso possiamo leggere correttamente le emozioni degli altri animali. Ma alle volte rischiamo di fraintendere le esternazioni di altre specie perché tendiamo ad interpretarle sulla base della nostra espressività. Una scimmia che ci mostri i denti non significa che ci stia sorridendo. Per i cavalli, ad esempio, sono importanti anche le orecchie; posizioni diverse veicolano significati differenti».


Gli animali di una stessa specie sono in grado di riconoscersi tra di loro? «Certamente. Anche tra le vespe o le pecore possiamo trovare individui molto diversi tra loro. A noi possono sembrare tutte identiche, invece ciascuna ha un muso un po’ diverso e tra loro si riconoscono. Riconoscere i diversi individui significa associare un’identità e poter ragionare sulle gerarchie. Laddove per sopravvivere è necessaria questa capacità, c’è anche la possibilità per gli individui di riconoscersi. Altre specie sfruttano un’altra modalità, quella acustica. Gli elefanti marini, ad esempio, si riconoscono sulla base di richiami distintivi per tono e ritmo».


Sanno contare? «Oltre a saper scegliere la collezione di elementi che ne contiene di più (come a dire che tutti sappiamo scegliere il vassoio sul quale troviamo più pasticcini), molte specie animali hanno dimostrato di saper eseguire semplici calcoli precisi su poche unità. D’altro canto basta pensare a una situazione naturalistica per comprendere il significato di questa capacità: se in una grotta sono entrati due predatori e ne è uscito solo uno, ci fidiamo ad entrare per ripararci dal freddo oppure non è un luogo sicuro perché un predatore è rimasto al suo interno?».


La rete ci fa scoprire insospettabili capacità negli animali: voi citate l’esempio dell’elefante che balla… «Sì, le osservazioni aneddotiche sono da sempre un’ottima occasione per ragionare a fondo su un certo fenomeno. Una volta visto il video - diventato in poche ore virale - di un esemplare di cacatua che si muoveva a ritmo con la musica, i ricercatori hanno avuto l’obbligo di studiare a fondo, in modo controllato, se il movimento era appreso per condizionamento oppure spontaneo e se i movimenti erano davvero sincroni con il ritmo musicale. Per fare questo, si studiano esemplari della stessa specie: si compiono analisi matematiche dei movimenti del corpo a seguito di modifiche del ritmo, presentato più lento o più veloce di quello originario. Proprio in questo modo sono state scoperte quattordici specie di uccelli capaci di ‘ballare’ unitamente a una specie di elefante». 



C’è poi la cornacchia che fa snowboard… «La video registrazione di un corvo che sale su un dischetto di plastica e scivola ripetutamente dalla sommità del tetto innevato non può che essere interpretata come ‘gioco’. Nel libro discutiamo su quali sono le caratteristiche che un comportamento deve avere per essere classificato, in questo caso, come gioco. Avere dei criteri condivisi ci aiuta a interpretare ciò che osserviamo. Non possiamo dire nulla sull’esperienza qualitativa (cosa prova il corvo, si sta divertendo?), ma apparentemente quello è un comportamento ludico, che ha comunque la sua rilevanza visto che è occasione di apprendimento su come funzionano le cose…».


Su un punto siamo in difficoltà: la memoria. Molte razze ci battono? «Ci sono almeno due esempi che ci creano imbarazzo, sì. Il primo è il caso della memoria per i luoghi delle specie di uccelli che nascondono provviste per la stagione rigida: possono recuperare migliaia di semi mentre noi dovremmo per forza avvalerci almeno di una mappa in cui abbiamo indicato i luoghi di nascondimento. Il secondo è il caso della memoria fotografica degli scimpanzé, che possono catturare la posizione di 9 elementi in pochi millisecondi e ripeterla correttamente subito dopo, mentre noi non abbiamo visto che qualcuno di questi dettagli. In questi casi siamo davvero i peggiori, ma in fondo queste super memorie non ci servono. È questo il principio che regola somiglianze e differenze tra le specie».


C’è il senso della strategia politica tra gli animali? «Anche in questo non siamo davvero unici: se prendiamo gruppi di primati non umani, questi possono creare coalizioni per spodestare l’individuo alfa, magari riottoso, a favore di un individuo più mite. O mediare una pacificazione portandosi appresso un cucciolo: una vera e propria strumentalizzazione».


In sostanza: in che cosa si differenziano le nostre menti? «Nel libro descriviamo un insieme di capacità di base largamente condiviso tra gli organismi. Su queste capacità si fonderebbero le successive occasioni di apprendimento e specializzazione. Nonostante vi siano cervelli macroscopicamente diversi (per dimensioni e organizzazione, da quello di un bombo grande qualche millimetro, a quello degli uccelli organizzato a nuclei), osserviamo una notevole continuità funzionale. Eppure, ciascuna specie eccelle in qualcosa di diverso: noi siamo unici per il linguaggio, le seppie per il mimetismo, i pipistrelli per l’ecolocalizzazione, e gli esempi possono andare avanti ad oltranza».


Qual è il rischio di umanizzare troppo gli animali? «Il rischio risiede nel perdere di vista le necessità tipiche delle singole specie e, così facendo, arrecare dei danni o del malessere all’animale. D’altro canto, è altrettanto nocivo descrivere comportamenti in modo neutro offuscandone il significato. Penso al bacio di pacificazione tra alcune scimmie: descriverlo come un contatto delle labbra anziché un bacio, ci fa perdere il valore di questo atto. E d’altro canto, studiare se in seguito al bacio riprendono interazioni amichevoli tra i due individui è possibile… e alcuni ricercatori lo hanno dimostrato. Ci vuole un’osservazione attenta e critica».

@boria_a

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