domenica 7 giugno 2020

IL LIBRO

Ilaria Tuti e la guerra dimenticata
delle portatrici carniche



Un'immagine storica delle portatrici carniche


Fiori di roccia. Sono le stelle alpine, delicate e tenaci, capaci di sbocciare in mezzo a ogni asprezza, di illuminare ogni desolazione. Fiori di roccia furono le portatrici carniche, un piccolo esercito di donne d’acciaio, aggrappate come le stelle alpine alla montagna e al bisogno di tenere in vita i soldati: figli, fratelli, uomini. Durante la prima guerra mondiale, salirono ogni giorno alle prime linee del fronte dai paesi della valle del Bût, della Val Degano, della Val Canale, dal paese di Dogna, portando sulla schiena gerle piene di armi, munizioni, esplosivi, medicinali, lettere da casa. A consegna avvenuta, prendevano la strada del ritorno, altre ore di marcia con ogni tempo, questa volta cariche di divise macchiate di sangue da lavare, spesso trasportando a valle le barelle dei cadaveri da seppellire. Appena in tempo per accudire figli, anziani, animali.

Aggredivano la montagna quando ancora era buio pesto, ai piedi gli scarpets di velluto che si modellano sulla pietra e rendono i passi silenziosi e sicuri, quegli stessi scarpets che permisero agli alpini del Battaglione Tolmezzo, nel giugno 1915, di conquistare la vetta del monte Freikofel presidiata dagli austriaci, senza che i nemici si accorgessero di nulla. Un lembo di stoffa rosso al polso, con un numero stampigliato, indicava il reparto cui le portatrici erano assegnate: ogni viaggio una lira e cinquanta, in un libriccino le consegne effettuate.


Donne semplici, di ogni età, fino ad allora abituate a essere definite solo attraverso i bisogni degli altri, che di quei bisogni, nella carneficina della Grande guerra, fecero occasione di riscatto, di presenza, di valore, rendendo visibile un ruolo che da tempo svolgevano nelle famiglie, nei campi, nella gestione della casa. Salirono alle trincee dalla cima del monte Coglians al passo di monte Croce carnico, continuando dal Pal Piccolo al Pal Grande, dal Freikofel al Gamspitz, sulle spalle gerle pesanti fino a quaranta chili: sedici chilometri di vette unite da una processione ininterrotta, come i grani di un rosario. Si deve anche a loro se il fronte italiano della zona Carnia non cedette mai e, solo dopo la disfatta di Caporetto, fu costretto a ripiegare sulla linea del Piave.


Tardivo e parziale il riconoscimento dell’Italia: nessun emolumento, il cavalierato alle superstiti appena negli anni Settanta, a Timau l’unica caserma in Italia intitolata a una donna, Maria Plozner Mentil, giovane mamma uccisa da un cecchino, medaglia d’oro al valor militare.


Accantonata per un poco l’ispettrice Teresa Battaglia (che però tornerà presto con la sua terza indagine) la scrittrice di Gemona Ilaria Tuti ha fatto una scelta coraggiosa dopo due noir bestseller: lasciare il filone di successo e raccontare una vicenda che - dice - da tempo aveva nel cuore, una pagina di storia ancora poco conosciuta, e non solo oltre i confini regionali.


Esce  “Fiore di roccia” (Longanesi, pagg. 320, euro 18,80), il romanzo su una portatrice di Timau, la giovane Agata Trampus, che con un gruppo di amiche - Caterina la vedova, Lucia la mamma, la devota Maria, l’esuberante Viola innamorata dell’amore - decide di rispondere all’appello del parroco, don Nereo, e di caricarsi sulle spalle la gerla per salire in prima linea, dove la resistenza dei soldati è allo stremo per mancanza di armi e approvvigionamenti.

 Una figura di fantasia, Agata, che però si sostanzia delle ricerche bibliografiche e documentarie compiute dall’autrice e delle testimonianze orali raccolte. Proprio come quella del capitano Andrea Colman, l’ufficiale con cui Agata costruisce un rapporto paritario di rispetto e fiducia, un personaggio che sintetizza le caratteristiche e il destino di due graduati decorati al valore militare.



Agata, orfana di una maestra, nella piccola casa piena di libri accudisce il padre, da tempo infermo, e custodisce il suo unico tesoro, la lastra d’argento con impressa l’immagine della mamma (gliela scattò una certa Tina - omaggio alla Modotti - prima di partire per l’America, e diventare attrice e grande fotografa...).
Sa parlare Agata, è fiera, indipendente, diventa la portavoce del gruppo di compagne destinate al sottosettore dell’Alto Bût.


Siamo nel giugno 1915. Il primo viaggio in vetta è un reciproco misurarsi con gli ufficiali al comando, che sottopongono le portatrici stremate dalla fatica e dalla fame al controllo del carico. 


Agata sa tenere testa agli uomini, da tempo si sottrae all’interesse morboso del ricco e imboscato Francesco, figlio dello speziale, e presto il capitano Colman e l’ufficiale medico Janes riconoscono in lei un’interlocutrice alla pari, che può guidarli nei canali impervi a loro sconosciuti, che non ha paura di affondare le mani nel sangue dei feriti, che può affrontare l’incontro con una delegazione nemica guardando gli austriaci negli occhi, senza subalternità, come un soldato, vestendo l’abito di nozze della madre.


Ilaria Tuti, scrittrice di Gemona del Friuli


A Ilaria Tuti piacciono i racconti che procedono paralleli, per poi incrociarsi a uno snodo della trama e svoltare per sempre il destino dei personaggi. Quando Agata spara a una lepre, sognando una tregua alla morsa della fame, e colpisce un giovane cecchino austriaco, si troverà davanti a una scelta che pretende da lei ancora più coraggio che la prima linea. Scegliere tra lasciare o custodire la vita, tra giustiziare o, vicendevolmente, curarsi e riconoscersi in un dolore che ci accomuna come esseri umani, al di là di ogni divisa.
Il “diavolo bianco” è Ismar e da giorni, acquattato tra le rocce, ha imparato a sentire sottovento l’odore di fiori e di bucato delle donne che si arrampicano fino alle trincee, in tasca la cartolina con un transatlantico e il sogno di uscire vivo da quella prigione di pietra. Agata lo porta a casa, lo medica, poi lo abbandona al suo destino. Ma la loro sorte è ormai segnata. “Libera da questa guerra, che altri hanno deciso per noi. Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto. Quando tutto intorno a me era morte, io ho scelto la speranza”.


Così scrive Agata, oltre sessant’anni dopo, richiamata tra le montagne della Carnia da un altro mostro, che la natura questa volta, non l’uomo, ha risvegliato. La sua decisione l’ha portata lontano, ha cancellato amicizie nate nella fatica delle salite, altre le ha preservate e cementate. Oltre il tempo e le distanze, come fiori di roccia.

twitter@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento