venerdì 10 ottobre 2014

IL LIBRO

 Non ho l'arma che uccide il leone

Elda che ha perso tutti i denti per l'elettroshock, che mangia dal piatto degli altri e ogni sera dorme in un letto diverso, infilandosi in quello di qualche compagna. Nadia che è arrivata a quattro anni e ha scoperto la vita "fuori" solo da adulta, "ricattata" dalla famiglia con regali perchè ritorni in fretta all'ospedale, senza essere un peso. Carla e Giovanni che hanno coronato il sogno di stare insieme sotto lo stesso tetto, tra grandi difficoltà economiche, in una casa che il parroco non benedice, perchè convivono. E ancora Sergio, un omone sradicato e dipendente dalla mamma, Giovanni, il profugo schizofrenico, Rosina, Carletto, Nevio.
Sono alcuni dei protagonisti delle storie raccolte da Peppe Dell'Acqua tra le mura di quello che, all'epoca, era l'ospedale psichiatrico di San Giovanni e confluite nella prima parte del libro "Non ho l'arma che uccide il leone", oggi alla sua terza edizione per i tipi di Alphabeta Verlag. Nella Giornata mondiale della salute mentale, queste storie hanno preso vita e corpo nell'ex Opp di San Giovanni, lette per l'occasione da esponenti del mondo politico, istituzionale, culturale, dell'associazionismo e della salute mentale, a testimonianza, quarant'anni dopo la chiusura del manicomio, che quella di San Giovanni è una storia, e una conquista, che appartengono a tutta Trieste. In una serata-evento, presentata da Massimo Cirri, conduttore di Caterpillar di Rai Radio 2, al fianco dello stesso Dell'Acqua, le storie di questi uomini e donne, le loro vicende di cadute e rinascite, di piccoli passi e sconfitte, di emancipazione e fragilità, incorniciate nella grande storia di San Giovanni, nella rivoluzione "che ha cambiato il mondo", hanno trovatola voce, tra gli altri, del sindaco Cosolini, del senatore Russo, della presidente della Provincia Bassa Poropat, dell'assessore alla Cultura Tassinari, del direttore dello Stabile Però, del questore Padulano, di Misculin dell'Accademia della follia, e ancora di medici, attori, giornalisti, dei magistrati Tamborini, Carlesso, Dainotti, Antoni.
Tutti, una trentina di lettori, a ricordare che "Non ho l'arma che uccide il leone" non è un libro per addetti ai lavori, ma per tutti coloro che vogliono conoscere il senso di una battaglia ancora in corso, per le giovani generazioni, com'erano tanti i giovani che, all'epoca della riforma Basaglia e al fianco degli operatori, sostennero una trasformazione culturale cruciale e aprirono le porte della città ai "matti di San Giovanni".
Il volume si compone, nella prima parte, di ventidue racconti, scritti in forma diretta e molto soggettiva, affiancati da appunti che restituiscono al lettore emozioni, nostalgie, memorie, riflessioni. La seconda parte riporta la cronologia dei fatti e delle circostanze, dal '71 al '79, le tappe del percorso del cambiamento nell'approccio alla malattia mentale. «Beppe - scrive Franco Basaglia nella presentazione inedita al volume, datata ottobre '79 - ha voluto raccontarci delle storie come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra, e probabilmente l'internato che gliele raccontava non capiva cosa volesse dire essere internato...».
Così si inventava e si costruiva una "complicità", una potenziale "pariteticità". Si cercava insieme, se non come uccidere il leone, almeno come tramortirlo, come riacquistare un'identità sociale che non fosse quella del malato di mente. Un percorso che ritroviamo tutto nella "storia esemplare" di Giovanni Doz, l'internato istriano "guarito" dall'istituzione: dopo vent'anni era diventato un oggetto e riusciva ad avere rapporti solo con altri oggetti, con i letti che ogni mattina riassettava all'Opp. È attraverso il disegno che il dialogo difficile tra paziente e medico comincia ad avviarsi. Dell'Acqua scopre così che "Messina", quella parola spesso biascicata dall'uomo, è il nome della barca con cui andava a pescare insieme al padre e ai fratelli. Dal disegno, prendono forma i desideri di Giovanni, pian piano realizzati: un'uscita, l'incontro con la famiglia, le prime esperienze "fuori".
Ancora Basaglia ricorda nella prefazione: quando Beppe andò in Jugoslavia, a San Giovanni di Umago, con Giovanni Doz, erano cadute le mura di Gerico del manicomio di Trieste. Il ritorno al paese era il principio della liberazione.
twitter@boria_a

Marco Cavallo all'interno dell'ospedale psichiatrico di Trieste

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