mercoledì 30 luglio 2014


MODA & MODI
Raffaella Pregara o "delle visioni"



Raffaella Pregara e la sua sposa a Palazzo Vivante di Trieste

Un abito da sposa come un'installazione, che ha richiesto quattro persone per infilare la gonna alla modella. Nelle sale di Palazzo Vivante di Trieste, dove è stato fotografato, quel trionfo di tulle e glitter sembrava in perfetta armonia con la ricchezza di arredi e decori. Una vena di spettacolarità, un filo di esagerazione, è nelle corde di Raffaella Pregara, stilista triestina che all'alta moda è approdata dopo un percorso in apparenza a volute, come qualcuna delle sue gonne. Genitori artisti, laurea in giurisprudenza riposta nel cassetto perchè nei tribunali non si sentiva di casa, qualche esame al Dams di Bologna e poi un master in regia cinematografica e televisiva e la realizzazione di corti e videoclip per complessi musicali. È sul "set" che scopre quanto le piace creare e inventare costumi. E qualcosa del "costume", estroso, bizzarro, a volte maniacalmente ricercato nei dettagli, è rimasto nell'alta moda che Raffaella disegna, prima con la sua griffe "Tolema", oggi col suo nome. Una couture da sera e da occasione, agli antipodi di come la stilista spesso si propone: in nero, trucco marcato, punk rock.
Quando la scelta della moda?
«Ho sempre avuto una passione per l'estetica in generale. Sui set dei video e dei documentari ho cominciato disegnando qualche costume e poi ho fatto per anni la buyer di tessuti, acquisendo una notevole conoscenza in questo settore. Ho un occhio allenato, li riconosco all'istante, senza quasi toccarli. È nata così l'idea di creare la mia griffe, Tolema, con quattordici-quindici capi di prova, proposti in uno showroom di Milano. L'esperimento ha ricevuto consensi ed è stato un incentivo a continuare. Fin dall'inizio, col mio prodotto, ho guardato all'Europa dell'Est e all'Oriente, dove una moda colorata e ricca poteva piacere».
Tolema, perchè? E perchè subito "couture"?
«Per il nome non c'è un motivo particolare. Mi piaceva il suono e non volevo utilizzare il mio, forse per una voglia di nascondermi in qualche modo. La "couture" è nelle mie corde, permette di sbizzarrirsi con tessuti e materiali eccentrici molto più che nel pret-à-porter. Mi piace sperimentare e l'ho fatto anche a mie spese. Credo che tutti i designer attraversino questa fase. Purtroppo oggi i venditori tendono ad abbassare la qualità del prodotto per pagarlo meno. E ormai il mercato è di massa: c'è una nicchia di stilisti che paga tantissimo per avere il massimo della qualità, il resto è indistinto. E il pubblico non è informato su ciò che acquista. Non sa distinguere».
Però lei ha continuato a fare abiti costosi...
«Veramente ho proposto anche collezioni più vicine al pret-à-porter, ma non mi convincevano. Da qui è nata la mia scelta successiva: ho abbandonato le collezioni e ora faccio solo capi unici. Con una metafora edile potremmo dire che sono l'architetto: disegno ma non cucio e quindi non realizzo i miei abiti direttamente, li faccio confezionare in alcuni laboratori del nord Italia».
Lei è molto diversa da quello che disegna, tra il gotico e il punk...
«Non sono statica, ho fatto tutti i passaggi, dal punk a Colazione da Tiffany. Anche nelle mie collezioni, a un certo punto avevo preso una piega "fantascientifica", quasi alla Gareth Pugh, uno stilista che mi piace. Ho ancora cinque-sei capi di questo tipo nel mio magazzino. Poi l'ho persa per strada. Per me un abito è comunque sempre "trasferire" una visione, ho bisogno di contestualizzarlo nel futuro. Quando vedo un cliente riesco di solito a capire in che fase si trova e a "spostarlo" un po' alla volta verso altro, magari più adatto. Mi riesce più facile sugli altri che su di me».
Come nasce un capo unico?
«Di solito ascolto "olisticamente" il cliente, nella sua globalità. Qualcuno arriva già con un modello, con la pubblicità vista su una rivista. La seconda fase è il disegno che realizzo cercando di trovare un equilibrio tra le nostre sensibilità. Per l'acquisto del tessuto mi rivolgo ad aziende italiane e francesi, qualcuna inglese. I tessutai oramai sono decimati, si passa dagli empori ai negozi per l'alta moda. Io scelgo una fascia medio-alta: un pizzo lavorato al telaio è del tutto diverso di quello che si trova nel pret-à-porter, anche se per il cliente che non l'ha mai toccato è difficile capire la differenza. Infine, per la fase della prova, arriva anche un modellista della sartoria».
Resiste la cultura del capo unico?
«Resiste negli abiti da sposa e nell'entourage della cerimonia, o per le occasioni che richiedono un capo personalizzato. Nel sud Italia il mercato è vivace, infatti sto pianificando l'apertura di uno showroom a Roma, che faccia da punto d'appoggio per quest'area. E poi ci sono i clienti dell'est Europa e i mercati della Serbia e del Montenegro, floridi e ancora poco sfruttati».
Con la sua moda così ricca aveva pensato fin dall'inizio al Medio Oriente?
«Per il mio gusto, l'abito lungo è quello che preferisco. Ma è anche vero che i mercati orientali richiedono stoffe opulente, colori accesi, passamanerie pregiate, strass. Ho vestito principesse arabe e posso dire che in tutto il loro mondo anche la vita in casa richiede standard molto alti nell'abbigliamento».
Chi sono le sue clienti?
«Donne giovani, dai venti ai trentacinque anni.
Le hanno mai chiesto di copiare un abito famoso, magari quello da sposa di Kate Middleton?
«Al contrario, cercano la personalizzazione. Non guardano le celebrità, piuttosto l'unicità. E non c'è solo il bianco, ma tutta una gamma di colori pastello. Al sud sono un po' più Biancaneve...».
Un vestito da sposa nasce in modo diverso dagli altri?
«La maggior parte delle clienti arriva con le idee un po' confuse, capita che vogliano cinque abiti diversi in uno. In questi casi faccio un po' la psicologa, consiglio, e lo dico chiaramente se quello che chiedono è fuori strada. Il vero divertimento per me è ottenere il risultato migliore con il materiale e il budget che ho a disposizione. Il massimo è quando la gente dice: "è bello, ma non so perchè". Ecco, il perchè sono i dettagli, un certo tipo di fattura...».
Vende a Trieste?
«Solo il 20-30 per cento della produzione. Qui siamo agli antipodi di quello che vedo in giro per il mondo. Raramente qualche donna mi colpisce. Un po' è la paura di osare, un po' è un certo snobismo che alla fine diventa uniformità. In altre città le donne interagiscono: se vedono qualcosa di bello su un'altra, chiedono, si informano. A Trieste si limitano a guardare, spesso criticano chi è diverso».
Cos'è che la ispira oggi? E in passato?
«Viaggio spesso, mi piace l'etnico non banale, la mescolanza di Oriente e Occidente. Ho attraversato molte fasi, dal minimalismo alla massima opulenza. Sono ciclica, come l'economia. Per questo faccio fatica a seguire il filone unico dellacollezione e preferisco il pezzo unico. Nel momento stesso il cui un abito è finito, sono catturata da qualcosa d'altro».
La sua ricetta di eleganza?
«In alcune donne l'eleganza è innata, si vede fin da quando sono bambine, è un'allure che si porteranno dietro per tutta la vita. Ma eleganti si può anche diventare, purchè si rispetti la propria natura. Credo sia qualcosa di molto vicino alla sobrietà. È, prima di tutto, non copiare».

twitter@boria_a


Un abito di Raffaella Pregara



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