domenica 7 febbraio 2016

IL LIBRO

 Pagine da leggere e da indossare


"Colazione da Tiffany", il little black dress di Truman Capote

 Non si può dire “tubino nero” senza pensare alla svampita ed eterea Holly Golightly di “Colazione da Tiffany”. Praticamente tutti hanno visto la versione cinematografica con l’incantevole Audrey Hepburn nel little black dress smanicato e aderente, molti meno hanno letto il libro scritto da Truman Capote nel 1958, dove la protagonista, bisex, era decisamente più sgangherata e meno versata alla commedia sentimentale. Poco importano, però, gli aggiustamenti del personaggio nel passaggio dalla carta allo schermo. Quel vestito è una certezza, sinonimo di eleganza, sobrietà, versatilità, e fa parte del guardaroba reale o immaginario di ogni donna, da Hillary Clinton a una first lady televisiva come la Claire di “House of Cards”.

Claire Underwood, "House of Cards"

 

Chi ha due passioni, libri e letture, non può che partire da questo grande classico, le petite robe noir, per abbinarle proprio come due pezzi di guardaroba. Ed è quello che fa la giornalista e blogger Marta Elena Casanova in “Che libro mi metto oggi?” (Editrice Bibliografica, pagg. 103, euro 9,90), vademecum da borsetta per scegliere il capo adatto a varie occasioni e per andare alla ricerca del romanzo che quel capo propone e valorizza, mettendolo addosso a un personaggio chiave, facendolo comparire a uno snodo cruciale degli eventi narrati. Così può capitare di scoprire storie e autori meno scontati, che rappresentano i suggerimenti più curiosi del libro.

Il vademecum di Marta Elena Casanova


«Era una sera calda, lei indossava un abito nero, aderente e fresco, portava sandali neri e una collana di perle. Nonostante la sua elegante snellezza, aveva l’aria sana di chi vive di latte e burro e si lava con l’acqua e il sapone... Un paio di occhiali neri le cancellava gli occhi», scrive Capote della sua Holly.
Ma c’è un “Tubino nero” meno conosciuto, firmato da un’altra scapestrata, nello stile e non solo, Françoise Sagan, in veste di giornalista. Nel 1969 l’edizione francese di Vogue le commissionava un intero numero monografico: ne uscirono una serie di pezzi su moda, scrittura, amici famosi come Saint Laurent e Nureyev, charme, rapporti uomo-donna, pensieri libertini, poi raccolti e pubblicati da Barbès Editore con quel titolo, “Il tubino nero”, mai come in questo caso espressione di raffinatezza e spericolatezza. Un esempio? «Non ci vestiamo per fare colpo sulle altre donne o per far loro rabbia. Ci vestiamo per spogliarci. Un abito è davvero un abito solo quando un uomo ha voglia di potervelo togliere».
La Sagan ritorna nel capitolo dedicato al grigio, passepartout di eleganza da mattina a sera, soprattutto a una certa età, quando la consapevolezza di sè è pari alla capacità di giocare con gli accessori. Dimenticando le “Sfumature” di E.L. James, che l’hanno reso fastidiosamente invasivo e che l’autrice comunque si sente in dovere di segnalare, perchè non rileggere “Bonjour tristesse” (1954), dove il grigio è arma crudele e inconsapevole dello scontro tra generazioni? Lo vediamo riflesso negli occhi di Cécile, diciassettenne ribelle e immatura, mentre guarda la futura matrigna Anne e architetta come distruggerla: «Mi fermai sulla soglia. Aveva un vestito grigio, di un grigio straordinario, quasi bianco, che catturava la luce e brillava come certi riflessi del mare all’alba. Quella sera in lei mi sembrava concentrarsi tutto il fascino della maturità...».


 
"Bonjour tristesse" dal libro di Françoise Sagan


Sono molti gli abbinamenti estremi tra autori che un abito, un bijoux, una palette di colori propiziano. Karen Blixen con gli accessori etnici, il bianco e il kaki ventosi de “La mia Africa” (che, ancora una volta, per chi non ha letto il libro - 1937 -, ci restituiscono gli splendidi costumi di Meryl Streep nel film di Pollack, firmati da Milena Canonero, candidata all’Oscar) e V.S. Naipaul con il Congo fetido e infestato de “Alla curva del fiume” (1979). O Patrick Dennis e la sua eccentrica “zia Mame” (1955), divertente antesignana del bling-bling, ai cui polsi «tintinnavano braccialetti e braccialetti di giada e avorio», e Louise de Vilmorin con “I gioielli di Madame de***” (1951), in cui, da un paio di orecchini a forma di cuore, si origina una tela di ragno di menzogne e ossessioni intorno alla protagonista, prigioniera delle sue trame. 



Maryl Streep in "La mia Africa" di Sydney Pollack

 Anche un pericoloso costume intero bianco - che nessun uomo o donna metterebbe a cuor leggero, a meno di non essere in un videoclip di Dolce&Gabbana - suggerisce due letture interessanti e agli antipodi. Una è “Corpi al sole” di Agatha Christie (1941), dove la protagonista e vittima, la volubile Arlena, finisce strangolata sulla spiaggia e nelle grinfie dell’acuto Poirot (“Era alta e snella. Portava un costume da bagno bianco che lasciava la schiena scoperta, e aveva il corpo di un colore bronzo uniforme. Era perfetta come una statua...»), l’altra è “La vedova incinta” di Martin Amis (2010), che invita a sdraiarsi a bordo piscina in un castello dell’Italia meridionale nell’estate 1970, tra personaggi ricchi e disinibiti, volubili e meschini, narcisi e affamati di sesso, a veder passare pigramente la Storia.
Non c’è pezzo, per quanto importabile e inguardabile, che non evochi la suggestione di una pagina scritta. Marta Elena Casanova propone i suoi abbinamenti, ma le combinazioni variano all’infinito. La canotta maschile sdoganata sui palchi leghisti al tempo del celodurismo? «Devo essere proprio un pazzo. Barba lunga. Canottiera piena di buchi di sigarette. Il mio unico desiderio era di avere più di una bottiglia sul comò. Non ero adatto a questo mondo, e questo mondo non era adatto a me», scrive Charles Bukowski in “Hollywood, Hollywood!” (1989). La camicia a quadri? Non c’è solo “Sulla strada” di Kerouac, viaggio polveroso nella beat generation tra droga, musica, sesso libero e molto alcol, ma anche il trucido e malinconico declino della frontiera in “Città della pianura” di Cormac McCarthy (1999). E lo stesso vale per le paillettes, di cui fa ampio uso Bret Easton Ellis nella violenta critica alla società dell’apparire di “Glamorama” (1998), ma che ritroviamo appiccicate all’umanità pacchiana, marchettara e collusa con la politica dell’esilarante “Sicilian tragedi” di Ottavio Cappellani (2007). 


 
"Piccole donne" nella versione cinematografica del 1949


Dai guanti delle “Piccole donne” (1868) di Louise May Alcott (dove la moda, a dispetto delle ristrettezze delle signorine March, la fa da padrona, anche in termini di ingegno, basti pensare agli espedienti per nascondere le macchie o le bruciature degli abiti, all’arte sublime di rivoltarli, ai termini musicali e desueti come “calicò”...) fino al copricapo indossato dalla protagonista quindicenne de “L’amante” (1985) di Marguerite Duras (“Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l’ambiguità dell’immagine è quel cappello...”), con i libri ci si veste dalla testa ai piedi, lingerie compresa (Bridget Jones insegna...), non dimenticando bottoni, scarpe, occhiali, scialli, ballerine e stiletto, in un viaggio tra le pagine da Jane Austen alla Candace Bushnell autrice di “Sex and The City”.

 Ed è un libro a riconciliarci perfino con l’animalier, che osa Micòl ne “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani, 1962: «Ad un tratto, sia pure di lontano, la vidi improvvisamente sbucare dal portone del Tempio e sostare sulla soglia. Indossava una corta pelliccia di leopardo, stretta alla via da una cintura di cuoio. I capelli biondi splendenti della luce delle vetrine, guardava di qua e di là come se cercasse qualcuno...».

 
"Il giardino dei Finzi Contini" di Vittorio De Sica dal libro di Giorgio Bassani


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