giovedì 22 gennaio 2015

IL LIBRO

Susan Abulhawa, una saga familiare tra sangue e ulivi a Jenin


«La Palestina riemergeva dal profondo nel cuore stesso della mia nuova vita, senza preavviso. A lezione, al bar, mentre passeggiavo per la città. Improvvisamente, i salici piangenti di Rittenhouse Square si trasformavano nei fichi di Jenin e si abbassavano per offrirmi i loro frutti. Era un richiamo insistente, che gridava fin dalle cellule del mio corpo, riportandomi a me stessa. Poi sprofondava di nuovo in uno stato di latenza».
Amy studia all’Università di Philadelphia, ha accorciato il suo nome, l’ha americanizzato, ha scelto una nuova patria, ha sepolto dentro di sè un’infanzia di morti, sangue, strappi familiari, il soffio di un proiettile che le si è tatuato sulla pelle. Ma basta una telefonata dal Libano del fratello Yussef, attivista dell’Olp, che le annuncia la nascita del primo nipotino, basta sentir pronunciare ancora il suo nome arabo, Amal, perchè il passato riemerga con la violenza dei suoni, dei profumi, degli affetti, di una terra, la Palestina, mai dimenticata.


È “Ogni mattina a Jenin”, il bestseller di Susan Abulhawa (tradotto in ventidue paesi e giunto alla quarta edizione con Feltrinelli nell’aprile scorso; pagg. 388, euro 10,00), che verrà presentato venerdì 23 gennaio, alle 17.30, alla libreria Lovat. L’autrice, dopo l'introduzione di Nada Pretnar e Ada Scrignari, parteciperà al dibattito in teleconferenza dagli Stati Uniti, dove si è laureata in biologia è ha fatto una brillante carriera universitaria. A conversare con Abulhawa sarà un’altra scrittrice palestinese e di origini triestine, Widad Tamimi, mentre le atmosfere del romanzo rivivranno nella voce di Barbara Sinicco, sulle note dell’oud di Marko Korosec e con l’assaggio di zaatar, una spezia tradizionale palestinese, che sarà offerta ai presenti.


 La scrittrice palestinese Susan Abulhawa
La storia di Susan Abulhawa si intreccia a quella della sua protagonista, Amal, anche se sugli elementi autobiografici prevale l’invenzione letteraria. «Non è possibile esplorare nuovi orizzonti con un libro di memorie», dice. «Ma non solo. Esplorare la vita degli altri mi risulta più semplice che indagare nella mia. Dall’esterno è possibile vedere ciò che all’interno non si vede».
Nata nel 1970 in Kuwait, da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni, Susan si è trasferita da piccolissima negli Usa, per poi tornare in Kuwait a cinque anni. A dieci è a Gerusalemme, dove trascorre tre anni in orfanotrofio, proprio come Amal, per poi rientrare in America. E, come fa dire alla protagonista nel libro, pur tra privazioni e fame, quel periodo rimane tra i ricordi più felici dell’infanzia. «La mia famiglia - racconta Susan - è originaria del Monte degli Ulivi a Gerusalemme, così per me è stata l’occasione per scoprire le mie radici e conoscere le strade della città. Qualcosa che sembra scontato, ma che alla maggior parte dei profughi palestinesi non è concesso».
“Ogni mattina a Jenin” fu pubblicato nel 2006 con il titolo “La cicatrice di David”. Abulhawa fu tra i primi osservatori internazionali ad arrivare nel campo profughi di Jenin, dopo l’intervento militare israeliano nel 2002, e lo shock che provò in quelle ore, il dolore e lo sconvolgimento, la spinsero a cercare una forma di racconto che non fosse il saggio.



Una veduta dall'alto del campo profughi di Jenin da Google Earth


Nasce così la storia della famiglia Abulheja, il cui patriarca Yehya viene ammazzato, nel 1948, stringendo in mano i fichi e le olive che quaranta generazioni di antenati avevano coltivato su quella terra. Dopo la sua uccisione da parte di un colono israeliano, i profughi di Jenin - disprezzati “senza patria” anche per gli altri palestinesi delle città della Cisgiordania ancora arabe - reagiscono, costruiscono scuole, nuove moschee: «Se dobbiamo essere profughi, non vivremo come cani».
Dalla metà del secolo scorso, il racconto degli Abulheja si dipana fino ai giorni nostri tra Gerusalemme, Beirut e Philadelphia, seguendo vite e destini dei figli e nipoti di Yehya lungo i sessant’anni del conflitto israeliano-palestinese. Compreso quel fratello che Amal non ha mai conosciuto, Isma’il, il piccolo con la cicatrice intorno all’occhio, strappato neonato dalle braccia della madre e cresciuto come David da nuovi genitori israeliani.
Un flusso narrativo potente e avvincente, che si concentra sulle piccole storie sradicate dalla grande storia. Ma anche, e soprattutto, un racconto viscerale d’amore e d’amicizia tra madri e figlie, tra donne di famiglie e generazioni diverse, tra uomini dello stesso sangue che la cecità dell’odio ha diviso e reso nemici. Di legami profondi tra uomini e terra, non solo nel senso di appartenenza, ma di lavoro, nutrimento, vita.
Susan Abulhawa ha fondato la Ong Playgrounds for Palestine, che promuove la costruzione di parchi giochi per bambini nei campi profughi palestinesi. «La verità - racconta - è che, probabilmente, ho iniziato a scrivere questo romanzo come attivista. Ma nell’istante stesso in cui i personaggi hanno cominciato a delinearsi e la storia a prendere forma, ne sono rimasta coinvolta, non più solo da un punto di vista politico».
Intanto, la rete di bibliotecari e archivisti “Librarians and Archivists with Palestine”, con sede a New York, ha lanciato la campagna internazionale “Un libro, molte comunità”, proponendo “Ogni mattina a Jenin” con prima opera da leggere e dibattere insieme. A Trieste l’iniziativa è stata raccolta da un gruppo che ha aperto la pagina facebook Ibriq. 
@boria_a


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