mercoledì 14 gennaio 2015

L'INTERVISTA: Alessandro Preziosi fa il Don Giovanni a Trieste


In televisione l’abbiamo visto pochi giorni fa ne “La bella e la bestia”, dove non era un animalaccio irsuto - metamorfosi che, dato il soggetto, avrebbe richiesto effetti speciali di trucco - ma un principe col volto sfregiato nascosto da una maschera, al quale l’amore restituirà sembianze apollinee. In teatro, al Politeama Rossetti, lo rivedremo da domani, questa volta nei panni del “Don Giovanni” di Molière, di cui è regista e protagonista. Il prossimo impegno di Alessandro Preziosi sarà però sul grande schermo. Al termine di questa intervista, ieri mattina, l’attore incontrava un noto regista italiano, con cui ha già lavorato alcuni anni fa. «Confermo, per ora solo questo: tornerò al cinema». Intanto ci racconta il “suo” Don Giovanni, la sua attualità.


Alessandro Preziosi nel "Don Giovanni" di Molière (foto Noemi Commendatore)

Pochi giorni fa in tv, ora ricomincia la tournée teatrale. Questi ambiti diversi sono una costante della sua carriera...
«Me l’ha insegnato Antonio Calenda: un buon attore deve avere la capacità di alternare. Quindi il teatro, il cinema d’autore che ho fatto con Corsicato, con Faenza, con i Taviani, e da parte mia ci ho aggiunto la televisione. Certo, il teatro lascia allo spettatore un metro di giudizio che non è solo quello dell’attore in sè, ma del contesto in cui si muove, delle scelte che fa. Però oggi quest’alternanza di ambiti è anche un’esigenza lavorativa, che permette di crescere e di rimanere allenati professionalmente. Ricominciare a girare dopo un lungo periodo di palcoscenico è difficile».
Mai avuto paura di saltare dalla platea televisiva “pop” a quella più “alta” della prosa?
«Mah, dovrebbero essere altri a dire se ha giovato... La popolarità serve bene per il teatro, meno per il cinema, dove essere troppo “usurato” può rappresentare un problema. Il teatro crea discontinuità rispetto alle attività propedeutiche alle produzioni cinematografiche, o ti fa assumere una recitazione troppo “teatrale”. Il fatto che io non sia presente in molti film, in realtà mi dice qualcosa... Comunque, è un rischio che ho messo in conto. Le mie sono scelte che si legano sempre a progetti, non faccio differenza tra un mezzo e l’altro. Rende la strada più impervia, ma mi piace così. Va anche detto però che la popolarità è necessaria per fare questo mestiere tutta la vita, anche Manfredi ha accettato la pubblicità di Lavazza e Gassman gli sceneggiati in tv. E ora in Italia la confusione è tale, che è bene armarsi di lavoro...»
Che Don Giovanni è il suo?
«Un Don Giovanni che non sopporta l’abuso mascherato dell’ipocrisia. In questo senso è specchio della società odierna: oggi si è ipocriti con la consapevolezza di esserlo. Questa nota dolente viene sostenuta con grande forza da Molière. Don Giovanni è la vittima sacrificale della società in cui vive, colui che ha il compito di mostrarci quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello in cui credere e quello in cui non credere. Al mio Don Giovanni attribuisco una carica di speranza: è importante scegliere in modo autentico, non giocare sull’ambiguità del “posso ma non voglio” o “voglio ma non posso”. Sono sfumature tutte presenti nel monologo sull’ipocrisia, che è come una doccia fredda, una scarica elettrica: crea nello spettatore che ascolta il dubbio di essere così. Ecco, è il tema dell’autenticità il punto centrale di questo lavoro. Perchè drammaturgicamente Don Giovanni è monotematico, è un viaggio, mentre offre spunti di riflessione di grande attualità, che sottolineo con effetti visivi, con la sonorità».




E come interpreta la seduzione compulsiva del personaggio?
«È una seduzione del linguaggio, non della donna, quindi molto più sofisticata e meno elementare. Don Giovanni punisce l’interlocutore col suo essere diretto e cinico, gli apre il fianco e lo mette di fronte alle sue contraddizioni attraverso la persuasione della parola. Mette un eremita in crisi sul concetto di utilità, davanti al quale non c’è morale o religione che tenga. Un eremita, non una donna...».
Anche Alessandro Preziosi per le riviste di gossip è un seduttore seriale. Si sente tale?
«Ma come si permette? Scherzo... E poi se lo dicono le riviste di gossip per partito preso direi di no. Ho due figli, direi che sono un padre seriale. È vero che amo le sfide e riconosco la persuasione del linguaggio come un modo di sedurre l’altro. Seduzione a fin di bene, s’intende, e non solo di donne. George Bernard Shaw diceva che Don Giovanni è anacronistico perchè la società è cambiata, le donne non restano più incantate ma ti portano in tribunale. Non sono oggetti dell’uomo, anzi è il contrario. Don Giovanni è un “burlador burlado”, come in Tirso de Molina, un seduttore fregato. Tornando a me, la serialità che mi riconosco è piuttosto quella dei lavori in tv».
Questo classico come può parlare alla generazione dei “social”?
«Attraverso la componente estetica il classico può essere attualizzato. Non si tratta di stravolgere il testo, nè di adattarlo, nè di spostarlo nel tempo. Lavoriamo sulla musica, sulla scenografia, sul tono. La generazione dei social network è in perenne sfida a chi ha più visualizzazioni, più contatti, più amici. È la sfida fine a se stessa porta alla dannazione - oddio forse questa è una parola troppo grossa - ma porta certo all’annichilimento. Don Giovanni è come un teorema geometrico, infallibile: tutto quello che è esterno, a casa mi si rivolta contro. Quando pensiamo di essere più furbi degli altri, restiamo fregati».
Prima ha nominato Calenda, che, possiamo dire, è stato il suo “scopritore”. Quindi anche con Trieste ha un legame particolare...
«No, diciamolo pure, Antonio Calenda è stato proprio il mio scopritore. Mi ha insegnato una grande disciplina e l’amore per il lavoro che faccio. Trieste è una città che mi dà molta ispirazione. Meglio, mi dà una grande concentrazione di intenti. Adesso ci torno più rilassato. Quando sono venuto qui con “Cyrano”, nel 2013, era una specie di embargo Cuba-America, un evento eccezionale. Intendo dire che ci tornavo da “privato”, con la mia compagnia, e c’erano fattori esterni e interni problematici. Adesso mi hanno richiamato, sono più sereno».
Pensa davvero che se lei non fosse così attraente avrebbe avuto successo in tv, al cinema, in teatro?
«Innegabilmente sull’aspetto fisico c’è una grande attenzione. Poi bisognerebbe rivolgersi a uno psicanalista - degli altri, intendo - per sapere se il successo sarebbe arrivato lo stesso o no. Attenzione: bisogna saper sfruttare non tanto la bellezza, quanto le occasioni che ti dà. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno aiutato a fare un percorso. Dopo “Elisa di Rivombrosa”, quanti avrebbero accettato di recitare “Re Lear” in teatro per duecento euro lordi al giorno? La bellezza conta, poi bisogna contare».
Crede nei talent show?
«Se sono vetrine per talenti sì, se sono vetrina per meteore no».
Lei ha due figli, di diverse età. Che tipo di padre è?
«Un padre che cambia con i figli. Credo non si debba mai fossilizzarsi in un modello di educazione prestampato. Se c’è un vantaggio nell’essere separati, è che si presta più attenzione ai cambiamenti e si fa tesoro dei propri errori. È necessario in un società così contraddittoria e così pericolosa».

@boria_a

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