giovedì 28 maggio 2015

L'INTERVISTA

Bob Ravalico, da Trieste ai vertici dell'Onu
Esce la biografia del "mulo" yankee



Ravalico con il vicepresidente Al Gore. Sullo sfondo il figlio Andrea, oggi direttore esecutivo di banca Ubs a New York

Sua madre li chiamava “i tubi di stufa”, perchè, una volta lavati, stavano in piedi da soli. Ma lui, Bob Ravalico, i suoi jeans li amava moltissimo e li indossò anche per andare a scuola, all’istituto per geometri Da Vinci, salvo poi essere rimandato a casa a vestirsi “in modo decente”. L’America, Bob, quindicenne ai tempi del Governo militare alleato, ce l’aveva nel sangue. Giocava a basket (nel ’53 vinse i campionati italiani juniores con la squadra della Ginnastica, dove giocava Gianfranco Pieri) marinava le sue lezioni per infilarsi tra i coetanei della High school americana, parlava inglese già così bene da essere ammesso nel “Teen age club” dei figli degli ufficiali yankee di stanza a Trieste. La sua famiglia veniva da Pirano e il nonno paterno, con due figli, era emigrato proprio in quel paese che lui sognava leggendo i libri della biblioteca dell’Usis, l’Us information service, su cui aveva imparato a muoversi lungo le strade di New York pur non avendola mai vista. E mai avrebbe immaginato che in quella città era destinato a fare una carriera straordinaria, fino a diventare Capo dei servizi di sicurezza dell’Onu, primo e unico italiano a ricoprire quella carica.

Ravalico con il principe Aga Khan Sadruddin che, dal 1966 al 1978, fu alto commissario dell'Agenzia per i rifugiati dell'Onu
S’intitola “Di vita e di conflitti. Trieste-New York: scalata al vertice della sicurezza Onu” (Photo Ma.Ma Edition, Minusio, pagg. 400, euro 20,00), l’autobiografia che Bob Ravalico ha scritto per i suoi sette nipoti (quattro dei quali vivono a Trieste, tre a New York), ripercorrendo una vita professionale scandita da incontri ed esperienze con presidenti e capi di stato, interventi nelle zone calde del mondo, avventure e paure.
Tutto cominciò proprio a Trieste, dove Bob, lasciata la scuola, nel ’54 si arruolò nella Venezia Giulia Police Force, un corpo formato da inglesi, americani e italiani. Finita quell’esperienza - che lo portò anche a Roma, per un’operazione speciale finanziata dalla Cia - rientrò a Trieste e fu assunto dalla CrT per organizzare la sicurezza della banca: «Di fatto finii a fare il custode - confessa - e fu un periodo infelice. Seppi di un concorso dell’Onu per Security Officers da impiegare all’estero. Mi dimisi, superai tutti i test alla grande e mi ritrovai con un passaporto dell’Onu pronto a partire per il Medio Oriente. Amici e parenti mi consideravano un pazzo: lasciavo una banca per un’avventura piena di incognite». La scelta di Bob si rivelò vincente. Ecco come la racconta da Locarno, dove vive con la seconda moglie Ruth, sposata più di trent’anni fa.
È vero che già nella polizia della Venezia Giulia si è occupato di personaggi molto speciali?
«Beh, forse subito no, come tutti ho fatto la gavetta e solo in seguito fui trasferito nella squadra investigativa dell’allora ufficio politico, l’odierna Digos, credo. Ricordo Re Faruk: un ciccione che mangiava e beveva ed era solleticato dalla sua bionda e voluttuosa fidanzata, Capece Minutolo. Con Jovanka, la moglie di Tito, mi trovai in un paradosso: proprio io, esule, dovevo proteggere l’emblema dei titini... Ma lo feci comunque, professionalmente. Il caso volle che molti anni dopo incontrassi in Somalia sua sorella, sposata con l’ambasciatore jugoslavo a Mogadiscio».

Primo incarico Onu, la Guerra dei Sei Giorni. Un impatto forte...
«Ero agli inizi ma con la mia esperienza passata riuscii comunque a mettermi in luce e a essere assegnato alla Special Unit dove si combattevano lo spionaggio e il contrabbando di alcuni ufficiali che sovrintendevano alla tregua tra arabi e israeliani. Rimasi operativo in Medio Oriente per 12 anni. Sono stato anche fatto prigioniero per un breve periodo. Fu duro dover dormire nel deserto: dopo giornate caldissime la temperatura scendeva di colpo e con altri colleghi ci si ammucchiava sulla sabbia fredda per riscaldarci».
È vero che non le piaceva Kurt Waldheim?
«È uno dei Segretari generali dell’Onu che ho conosciuto, ma del quale non ho un buon ricordo. Un egocentrico interessato solo alla sua levatura più che al servizio a cui era chiamato. Una volta mi trovai ad accompagnarlo nelle capitali del Medio Oriente. Ad Amman l’incontro con Re Hussein fu rimandato perchè sua moglie era deceduta in un incidente con l’elicottero proprio quello stesso giorno. Vedo ancora Waldheim camminare su e giù per la stanza inveendo contro il Re che aveva avuto l’ardire di rimandare il colloquio con lui. Mi disgustò».



Ravalico con il segretario generale dell'Onu Boutros Boutros-Ghali (1992-1996)

In Iraq l’incontro con Kofi Annan, allora funzionario Onu...
«Era il 1988 quando le truppe di Saddam Hussein in Iraq “gassarono” un villaggio curdo nel Nord del paese. La commissione Onu per il Medio Oriente, a Baghdad, era ad alto rischio. Dalla Costa d’Avorio, dove avevo un ufficio, mi fu richiesto di organizzare un dettagliato piano di evacuazione. La direttrice dell’ufficio di Baghdad, signora Dodson, venne a darmi il benvenuto all’aeroporto, ma non mi conosceva e cercava un italiano da stereotipo: basso, capelli ricci, baffi. La vedo ancora svolazzare per l’atrio nel panico, con l’autista vicino. Nel frattempo era arrivato Kofi Annan da New York e insieme ci avviammo al controllo passaporti, dove finalmente la Dodson si fiondò su di noi scusandosi profusamente. Noi ci facemmo una bella risata. La nostra amicizia si consolidò in quest’occasione. La guerra tra Iran e Iraq era finita, ma i due paesi si scambiavano ogni giorno un missile Scud. Quello su Baghdad esplodeva con gran frastuono alla sera. Kofi e io ci facevamo regolarmente un wiskey fino all’impatto, dopodichè andavamo a dormire, a volte un po’ allegri. Abbiamo lavorato sempre in sintonia».


Con Kofi Annan, Segretario generale Onu (1997-2006) e Premio Nobel per la Pace

Com’è stato il suo ingresso nel Palazzo di vetro?
«Naturalmente l’avevo visitato varie volte, ma entrare camminando sul tappeto rosso è stata un’esperienza e una soddisfazione unica. Decisioni, intrighi, alleanze, pressioni politiche, interessi internazionali, nepotismo alimentato da Missioni o Delegazioni, egocentrismo... Insomma, una moderna Torre di Babele, con un proprio linguaggio fatto di acronimi incomprensibili ai nuovi arrivati. Ero consapevole che questo elaboratore umano in definitiva controlla il mondo intero e tutto l’insieme era molto stimolante, soprattutto una sfida».
Africa, America centrale, Iraq: cos’è stato peggio?
«In ognuno di questi posti ho avuto una buona dose di paura e in più occasioni ho rischiato il peggio. La paura è una brutta bestia, tutti la provano. Io riesco a controllarla e questo mi ha permesso di operare per tanti anni sotto pressione. Mi ha aiutato anche una forma di orgoglio italico. Era come se volessi dimostrare che l’italiano non è da meno di colleghi di altre nazionalità che passano per temerari».


Un matrimonio curdo nel Kurdistan del Nord, Iraq 1991

Nel 1993 il primo attentato alle Torri Gemelle.
«Ero in auto con l’ambasciatore giapponese diretto al World Trade Center per un pranzetto al ristorante “Windows on the world”, all’ultimo piano del grattacielo, quando il mio Centro di controllo m’informò via radio che qualcosa era successo in quella direzione e mi consigliò di tornare in ufficio. Il pomeriggio stesso, con i colleghi di Fbi, Diplomatic Security e NYPD, la polizia di New York,


Ciccio, il piccolo maltese di Bob e Ruth, mascotte delle guardie dell'Onu in Iraq
visitammo il sito. Una caverna enome come due-tre campi di basket, con centinaia di auto distrutte. Da quel giorno tutti i Servizi di sicurezza di New York iniziarono a riunirsi più frequentemente. Ricordo che l’amico Jim Heavy, capo dei Servizi segreti, annunciò che aveva perso ben 34 automobili. Mi alzai e di fronte a tutti affermai che ciò non sarebbe potuto succedere a me. Lui, incazzato, replicò: “Credi di avere un Servizio migliore del mio?”. Al che io risposi: “No, semplicemente non ho tante automobili”. Scoppiarono tutti a ridere e per molto tempo la storiella fece il giro di New York».
Avevate previsto la possibilità di altri attentati?
«Pensammo alla possibilità di un attacco aereo contro un edificio, in particolare la sede dell’Onu, che ha una grande facciata esposta a Est. Assieme ad alcuni ingegneri discutemmo il possibile attacco con un aereo da turismo pieno di esplosivo tipo C-4. Secondo gli esperti, tale impatto avrebbe distrutto al massimo tre piani, senza intaccare la sicurezza del grattacielo. Nessuno ipotizzava quello che sarebbe successo nove anni dopo».
L’incontro con il Papa...
«Avevo già avuto contatti con il Vaticano, che, peraltro, ha il miglior Servizio di intelligence al mondo, onesto e senza doppi giochi. Ma la visita a Giovanni Paolo II fu un evento che mi impressionò. Mi parlava come se fossimo amici, con semplicità, dopo avermi chiesto in quale lingua preferivo esprimermi. Dei tanti che ho incontrato, i tre personaggi che mi hanno colpito di più per carisma sono stati Giovanni Paolo II, Nelson Mandela e Madre Teresa».
Bob Ravalico con Giovanni Paolo II
Lei non ha mai dimenticato Trieste...
«È sempre stata nel mio cuore, ne ho parlato con tutti i colleghi e, modestamente, ne ho sempre portato alto il nome. Dopo il divorzio, i miei figli tornarono a Trieste con la mamma, mentre io ho continuato a girare il mondo. Le mie due figlie, Betty e Sandra, ancora ci vivono con le loro famiglie mentre mio figlio Andrea, direttore di banca Ubs, è a New York».
E la vela?
«Partecipo alla Barcolana dal ’91. Venivo da New York per la regata e ripartivo subito dopo. Dopo la pensione, ho vissuto due anni e mezzo su una barca a vela navigando da New York al Venezuela attraverso tutte le isole dei Caraibi. Ho attraversato l’Atlantico e navigato in solitario da Trieste a Tel Aviv con una barchetta di otto metri. Oggi navigo con la mia quindicesima barca e religiosamente ogni anno partecipo alla Barcolana. Prima facevo equipaggio con Tano Romanò, uno skipper molto competitivo. Ora sto su una barca più grande e comoda dell’amico Ivo, senza velleità di vittoria ma solo con la grande gioia di esserci».


Grande passione per la vela, Bob non si perde una Barcolana a Trieste
Come le piacerebbe che la ricordassero i nipoti e, un domani, i pronipoti?
«Ho pensato che il modo migliore per farmi conoscere fosse raccontare loro la mia vita. Sarei appagato se mi vedessero come una persona onesta che, pur dovendo stare lontano dalla famiglia, ha svolto un ruolo vitale nell’assicurare l’incolumità altrui..
Quali qualità e quali difetti deve avere il capo della Sicurezza Onu?
«Fare esperienza, avere attitudine al comando, essere in grado di gestire i subordinati. Non chiedere mai a loro di fare qualcosa che non puoi fare tu stesso. Proteggere esseri umani è un privilegio, non l’ho mai considerato un lavoro o un sacrificio. E non ho mai accettato il triestino “no se pol”, ero conosciuto per rendere possibile l’impossibile. Come italiano non è stato facile, anzi. Difetti? Beh, dopo tutto sono un essere umano...».
twitter@boria_a



Bob Ravalico con la seconda moglie, Ruth, con cui è sposato da trent'anni

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