lunedì 4 maggio 2015

L'INTERVISTA
 
Pierre Stonborough: "Mia nonna Margaret, la sposa di Klimt"



Margaret Stonborough Wittgenstein da giovane, prima del 1914

Due dei suoi abiti, confezionati a Parigi nell’atelier delle sorelle Callot intorno al 1925, sono esposti al Museo della moda di Gorizia. Margaret Stonborough Wittgenstein, sorella minore del filosofo Ludwig, uno dei più grandi pensatori del XX secolo, e del pianista Paul, fu una delle regine della mondanità europea e americana della prima metà del Novecento. Nata nel 1882 in una delle più ricche famiglie dell’impero austroungarico, settima dei nove figli di Karl, industriale dell’acciaio, Margaret, bella e intelligente, cercò di emanciparsi dalla fortissima personalità paterna attraverso il matrimonio con l’americano Jérome Stonborough.
 
Il padre, mecenate di artisti, commissionò il suo ritratto nuziale a Gustav Klimt, che la dipinse come una bellezza bruna e altera, avvolta nell’abito bianco scollato. Margaret peregrinò a fianco del marito tra Parigi e New York, dedicandosi a un’effervescente vita di società, ma anche al mecenatismo in favore di artisti, architetti, intellettuali. Dopo la fine del matrimonio con Jérome, che si suicidò nella loro villa di Gmunden, Margaret si fece costruire un’altra residenza, che fu progettata dal fratello filosofo Ludwig e da Paul Engelmann, allievo di Adolf Loos. Fu amica e paziente di Freud, che aiutò a scappare a Londra, dopo l’instaurazione del regime nazista a Vienna. Dovette lasciare lei stessa l’Austria, non prima di aver aiutato molti ebrei.

 
A raccontarci questa figura di “musa, intellettuale e mecenate nella Vienna della prima metà del Novecento”, e un po’ della esuberante vita mondana che testimoniano gli abiti nella collezione del museo goriziano, sarà un nipote di Margaret, Pierre Stonborough, ospite, il 5 maggio alle 18, insieme alla moglie Françoise, nella sala dei Musei provinciali di Borgo Castello, dove converserà con la sovrintendente Raffaella Sgubin. Ecco qualche anticipazione del suo racconto.



Margaret Wittgenstein ritratta da Gustav Klimt in abito da sposa nel 1905
Sua nonna era brillante, talentuosa, affascinante: lei come se la ricorda?
«Beh, non sono esattamente gli aggettivi che userebbe un adolescente per descrivere sua nonna. Lei sapeva così tanto, e io così poco. Parlava perfettamente tedesco, francese, inglese, e probabilmente anche un po’ d’italiano, anche se non l’ho mai sentita. La forza della sua personalità e della sua erudizione erano davvero in grado di sopraffarti e se non fosse stato per il grande amore e affezione che mi dimostrava, mi avrebbe fatto paura, come a molti dei miei cugini che la conoscevano meno. Naturalmente era elegante, severa ma gentile, e sicuramente, durante la seconda guerra mondiale, io sono stato per lei una sorta di “surrogato” dei suoi due figli, mio padre e mio zio, che sono stati al fronte più o meno per cinque anni».
È vero che l’ha accompagnata nelle maison di moda parigine?
Una volta sola... da Paquin, una casa di moda prestigiosa prima e subito dopo la guerra. Penso che fosse il 1947. Avevo quattordici anni ed ero terribilmente imbarazzato e timido in mezzo a tutte quelle belle donne. Che spreco! Quando ho raggiunto l’età per apprezzare, Paquin era scomparso e mia nonna non andava più a Parigi».

 
Ha qualche aneddoto da raccontarci su di lei?
«Nel 1920 fu invitata da Herbert Hoover, più tardi il presidente Hoover, a fare un giro negli Stati Uniti per patrocinare la causa dei bambini austriaci, perchè all’epoca c’era una tremenda scarsità di cibo. Lei accettò e parlò in molte città, in comuni, nelle piazze, nelle chiese. Quando arrivò a Boston, una diocesi molto cattolica, andò a incontrare il cardinale, credo si chiamasse Cushing. Mi ha raccontato che quando gli chiese se poteva parlare dal pulpito della cattedrale, lui si limitò a sorridere e disse: “Signora Stonborough, la sua innocenza la salva”. Nessuna donna aveva mai parlato dal pulpito e il cardinale non intendeva rompere la tradizione.

 
Una certa faccia tosta.
«E anche un grande senso dell’umorismo. Mi chiedeva sempre nuove barzellette quando, in anni successivi, andai via di casa per studiare. Naturalmente, come tutti i viennesi della sua generazione, conosceva e raccontava molte barzellette sugli ebrei, anche se lei era una cattolica romana. Era una fan sfegatata delle strisce del New Yorker e quando non le capiva, perchè facevano riferimento a qualcosa di locale o erano pure spiritosaggini americane, mi chiedeva di spiegargliele».

 
Klimt ha ritratto sua nonna in abito da sposa regalandole una sorta di immortalità. Che cosa si diceva nella sua famiglia di questo capolavoro?
«Quando mia nonna era viva Klimt non godeva della venerazione di cui è circondato oggi. Nei primi anni dopo la guerra, teneva il suo ritratto a Gmunden, dietro il sofà, un po’ fuori posto. Girava anche una storia, falsa, che non le piaceva la sua bocca e che l’aveva cambiata. Io lo vidi solo una volta prima che, anni dopo, fosse esposto nella prima grande mostra su Vienna al Centre Pompidou a Parigi. All’epoca, mio padre aveva già venduto il ritratto alla Neue Pinakothek a Monaco.

 
C’è un altro legame tra sua nonna e Gorizia: chiamò l’architetto di origine goriziana Rudolf Penco a restaurare la sua villa a Gmunden...
«Proprio così e Ursula Prokop, la biografa di mia nonna, aveva già scritto una biografia di Penco prima di scrivere quella su di lei. Penso che Penco fosse ancora molto giovane quando mia nonna lo assunse per lavorare a Villa Toscana a Gmunden. Sospetto che l’impianto fosse suo e che lui lo abbia semplicemente eseguito. Anni dopo lui fece una serie di disegni del duomo di Santo Stefano a Vienna che dedicò ai miei nonni. Li abbiamo ancora».

 
Lei è nipote di due immense personalità del XIX secolo. Ha qualche ricordo speciale di Ludwig e di Paul?



 Ludwig Wittgenstein
«Non ho ricordi del mio prozio Ludwig, anche se è probabile che io l’abbia guardato dalla mia culla. Si dice che fosse molto affezionato a mia madre, una donna americana. Invece ho conosciuto abbastanza bene il mio prozio Paul. Fu molto gentile con mia madre e con me a New York. Dopo l’università, ho persino avuto un ufficio nello stesso edificio a Manhattan dove lui riceveva i suoi studenti e dava lezioni. Credo che per lui sia stato più difficile adattarsi all’America di quanto non lo fosse per mia nonna. Era molto rigido con i suoi figli e forse anche con se stesso. Ma perdere il braccio destro in battaglia e continuare in seguito a fare il pianista significa avere un carattere molto speciale». 
 Pierre Stonborough (Wittgenstein Initiative)
Nascere in una famiglia come la sua è un grande privilegio. Lei ha sentito la responsabilità, diciamo anche il “peso” di questi legami?
«Se nasci col nome ma senza il talento, è meglio che tu ringrazi per la fortuna che hai avuto e vai per la tua strada. Tuttavia, quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito a Vienna circa vent’anni fa, ho avuto la sensazione che una parte di me fosse tornata a casa. Da allora ho fatto quanto era in mio potere per onorare le generazioni che hanno giocato un ruolo così importante nella storia intellettuale, industriale e culturale dell’Austria e non solo».


 Conserva ancora qualche pezzo del guardaroba di sua nonna?
«Mia moglie e i miei figli hanno ereditato alcune delle sue cose, ma l’unico pezzo di vestiario che io conservo ancora è una vestaglia di seta ricamata. Non so che provenienza abbia ma l’ho portata con me per farla esaminare agli esperti del Museo di Gorizia. Potrebbe essere turca, o forse cinese... un mistero molto orientale». 
twitter@boria_a

Il pianista Paul Wittgenstein perse un braccio durante la I guerra mondiale

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