sabato 19 novembre 2016

 IL LIBRO

Ilie, orfano bianco di mamma badante







A pochi giorni dallo sbarco in tivù del vicequestore Rocco Schiavone, che, con il volto di Marco Giallini ha bissato negli ascolti il successo dei libri (Sellerio), Antonio Manzini esce con un nuovo romanzo “Orfani bianchi” (Chiarelettere, pagg. 240, euro 16,00). Chi ama il poliziotto ferito e scontroso, trasferito da Roma ad Aosta per le sue pratiche spregiudicate, si troverà in un mondo e tra voci completamente diverse, dove però non è difficile riconoscere l’autore e la sua straordinaria capacità di entrare nell’animo dei personaggi e di metterlo a nudo, fino in fondo ma con una sorta di pudicizia, fermandosi prima che tutto sia svelato e violato. 


Antonio Manzini


Oltre cinquant’anni fa le “vedove bianche” erano le mogli dei nostri immigrati, che rimanevano a casa, sole anche per interi anni, mentre i mariti lavoravano lontano. Oggi gli “orfani bianchi” sono i figli delle badanti straniere, lasciati in patria con i familiari, o, se nessun parente è disponibile, “internati” negli istituti, dove capita che gli orfani veri siano meno della metà. “Internat” si chiama appunto l’orfanatrofio dove la protagonista della storia, la moldava Mirta, è costretta ad abbandonare il figlioletto dodicenne Ilie. Una stufa difettosa ha mandato a fuoco la povera casa della nonna, l’anziana è morta nel rogo e nessuno può occuparsi del bambino, mentre la mamma sgobba a Roma lavando scale nei palazzoni e poi, in una ricca casa dell’Aventino, si prende cura di Eleonora, un’anziana incattivita e pressochè allettata.


«È inutile che ti dica che mamma avrebbe voluto un’italiana, ma non se ne trovano. Vada per una bulgara, romena o africana» le dà il benvenuto la nuora dell’inferma. «Come se fossimo la stessa cosa», pensa Mirta. Ma se lo tiene per sè. Perchè quel lavoro pesante, schifoso, ma ben retribuito è quello che le serve per portare Ilie finalmente in Italia, per strapparlo alla prigione per bambini dagli occhi vuoti dell’Internat. Per ottenerlo, quel lavoro, Mirta ha mentito e rubato e ora è disposta a mandar giù le umiliazioni di chi la considera a priori una delinquente necessaria da tenersi in casa e le “perimetra” gli spazi dove muoversi, come se fosse pronta solo ad allungare le mani, le dice in quale frigorifero tenere il suo cibo, in quali stanze non entrare, cosa toccare o non toccare.


La storia è tutta qui. Storia di distanze e silenzi, entrambi abissali. Quelli che dividono Mirta e Ilie, colmati dalle mail con i racconti della mamma, dai pacchi con i videogiochi confiscati dalla direttrice dell’orfanotrofio, dalle telefonate destinate a rimanere mute perchè il bambino sta mangiando, sta guardando un film, sta giocando con gli altri... Ilie non parla e non scrive, ma è come se lo vedessimo sprofondare a poco a poco nella disperazione degli ambienti lividi dell’Internat, soffocato dagli odori di cibi malcotti e dalla solitudine.


E distanze e silenzi inevitabili crescono anche tra Mirta ed Eleonora. Entrambe prigioniere, l’una della malattia, l’altra del bisogno. Entrambe annullate dalla reciproca dipendenza. La convivenza nella galera dorata dell’anziana è scandita dai tempi delle medicine, degli omogenizzati, del cambio di posizione, per evitare le piaghe da decubito in un corpo già martoriato dagli anni e dalle iniezioni. I tempi di Mirta sono fitti di istruzioni e posologie, tempestati dalla sveglia che le ricorda il momento di far rotolare Eleonora dall’altra parte del letto, complicati dall’odio feroce della vecchia che si sporca e si bagna per dispetto. E Mirta, a sua volta, le nega il programma preferito in tivù, la insacca in un grembiule, senza biancheria intima, e la pianta sulla carrozzella davanti allo schermo opaco. 


È il resoconto crudo e serrato di una settimana, in cui fra quattro pareti si combatte una guerra di resistenza. Entrambe hanno uno scopo da raggiungere, a qualsiasi prezzo. Finchè le due disperazioni si riconoscono, misurano la loro identica profondità. E dal corpo avvizzito di Eleonora esce un soffio di voce: «Voglio morire».
Mirta non può eseguire quest’ultima richiesta. Non può uccidere o, semplicemente, come le dice la signora, «accelerare la decomposizione». Anche lei ha un obiettivo: basta resistere ancora qualche mese, poi suo figlio la raggiungerà e con Pavel, l’uomo che potrebbe imparare ad amare, costruiranno una famiglia. Ma la storia corre ugualmente verso un esito di morte, in un finale precipitoso che non lascia margini di riscatto. Resta una domanda, nel bisbiglio di Eleonora: perchè man mano che cresce la ricchezza aumentano i muri dentro casa (e dentro di noi)?

@boria_a

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