sabato 7 marzo 2015

LA MOSTRA
 
Quando l'alta moda era "Bellissima" la facevano i triestini


Gigliola Curiel al Carillon di Paraggi, 1952 (dal catalogo Maxxi Electa, Archivio Federico Garolla)


Camilla Cederna, sull’«Europeo» del 27 novembre 1955, le dedica un’intera pagina. “Gran taglio milanese” titolano le tre colonne fitte fitte su Gigliola Curiel, la «Gigliola», come la chiamano le sue clienti, «che veste le signore più in vista, più belle, più mondane e anche le più tradizionaliste» della buona società meneghina. La ragazzina - figlia di un ingegnere navale triestino: ed è l’unico accenno nell’articolo alle origini giuliane della “sarta” - che riempiva i quaderni di figurine di donne pronte per il ballo e nel testo di greco teneva come segnalibro una silhouette di cartone vestita per il té delle cinque, ha trasformato il passatempo in un vero mestiere. Prima ha venduto i suoi figurini ai sarti milanesi, con un bel po’ di faccia tosta e simulando un accento straniero per fare scena, poi ha aperto una sartoria in via Durini che è arrivata a contare oltre settanta lavoranti e, infine, è sbarcata in America incantando i compratori di Bergdorf Goodman e conquistando le pagine del New York Times, del New Yorker, di Vogue a colpi di “Bravo, bravissimo Gigliola!».
 
“Animosa triestina” dagli occhi turchini, la definisce la Cederna. E con sincera ammirazione si sofferma a descrivere come questa “bella signora” ancora s’inginocchi accanto alla cliente per studiare l’andamento di una “pince”, mentre «strizza gli occhi per vedere cos’ha di ben fatto da mettere in risalto, se il fianco, il braccio o il décolleté, cercando invece di coprire in tutte l’attaccatura del braccio, che secondo lei difficilmente è perfetta».

 
C’è tanto di Trieste nel monumentale e magnifico catalogo che accompagna la mostra “Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945 1968” al Maxxi di Roma (Maxxi Electa, pagg. 451, euro 55,00), un allestimento curato da Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo e Stefano Tonchi visitabile fino al 3 maggio. La mostra e il catalogo sono due momenti di uno stesso progetto, indipendenti e complementari, spiega Frisa in uno dei tanti saggi della pubblicazione. Perchè se la mostra propone una selezione di abiti e designer che hanno costruito l’identità della moda italiana, il libro, con gli scritti di critici, giornalisti, storici e con foto tratte da pubblicazioni nazionali e internazionali, racconta - attraverso la lente della moda, e in un fluire di immagini che sembra riprodurre la solennità delle sfilate negli atelier di quegli anni - un momento di straordinaria creatività nelle arti, nel cinema, nella fotografia, nell’architettura, nel teatro, quando il gusto e lo stile italiani dettavano legge nel mondo.

 
Gigliola Curiel con le sue creazioni è tra le sarte preferite per le prime alla Scala, in particolare quelle di Sant’Ambrogio, in cui la presenza della Callas alza alle stelle la febbre di mondanità delle signore aristocratiche e alto-borghesi. Con lei, e la figlia Lella, che prenderà il suo posto ed è ancora oggi vigorosamente alla guida della griffe, nel catalogo sono rappresentati e raccontati tutti i grandi stilisti triestini, ciascuno con la sua individualità protagonista della stagione più entusiasmante della moda italiana.
Ecco un modello da giorno in bianco e nero, abito corto e piccola cappa, quasi una scultura, firmato nel 1968 da Renato Balestra e fotografato da Gian Paolo Barbieri per “Linea italiana”.



Un modello di Renato Balestra fotografato da Gian Paolo Barbieri per "Linea italiana", primavera-estate 1968 (catalogo Maxxi Electa)


 Balestra, che ha lasciato gli studi di ingegneria per seguire la passione della moda e ha fatto l’apprendistato da Jole Veneziani (nata a Taranto nel 1901, da mamma pugliese e padre triestino...) negli anni Sessanta veste le dive di Hollywood come Zsa Zsa Gabor, Linda Christian, Natalie Wood e Caroll Baker, ma i suoi modelli elaborati e raffinati seducono anche l’imperatrice Farah Diba e la first lady filippina Imelda Marcos, le principesse saudite e la regina Sirikit di Thailandia.
Non possono mancare i Missoni, con i loro zig-zag nati quasi per caso e destinati a colonizzare il mondo, precursori di quel prêt-á-porter italiano che si affranca subito dall’artigianato e diventa paradigma della moda moderna, legandosi all’industria tessile.
Importante lo spazio dedicato alla dalmata Mila Schön, “la Coco Chanel italiana” come la definì Diana Vreeland, direttrice di Vogue America, per quel suo stile contaminato dall’estetica e dalla poetica del modernismo.



Mila Schön con Mina nel suo atelier milanese fotografate da Ugo Mulas (dal catalogo Maxxi Electa, Eredi Ugo Mulas)

Maria Luisa Frisa, nel saggio dedicato alle “forme dell’atelier”, richiama l’attenzione sul fatto che una stessa parola definisca lo studio dell’artista e quello del sarto, e come “creazioni” vengano chiamate, ugualmente, le opere di entrambi. È un momento magico, quello del dopoguerra, in cui la moda si nutre di arte e la fotografia interagisce con i luoghi in cui la moda nasce, diventandone parte integrante. L’amicizia di Mila Schön con Ugo Mulas, uno dei più grandi fotografi italiani prestato alla moda, è esemplare di questo scambio. Ecco la celebre immagine della cantante Mina nell’atelier milanese di Mila, firmata da Mulas e uscita su “Gente” dell’8 ottobre 1969. Mina, regale come una divinità greca in uno degli abiti da sera tempestati di applicazioni, e, sullo sfondo, la sarta di Traù, in camicetta bianca e gonna nera, di cui il gioco di specchi e l’angolazione scelta dal fotografo, raddoppiano l’immagine. Attraverso Mulas, Mila Schön conosce Lucio Fontana, ne diventa amica, e gli dedica l’intera collezione primavera-estate 1969, percorsa da tagli verticali e oblò. Le sue soluzioni di alta moda pronta degli anni Sessanta - “semplice ma non facile”, scrive Stefano Tonchi, già direttore di T: The New York Times Style Magazine e oggi direttore di “W Magazine” - accompagnano il passaggio al grande prêt-á-porter milanese degli anni Settanta e Ottanta.

 
Non è il solo rapporto fecondo tra arte e moda e non è il solo che coinvolga protagonisti della cultura del Friuli Venezia Giulia. Nel 1969, nella galleria Naviglio Incontri di Milano di Carlo Cardazzo sono esposti gli abiti con corsetti di metallo e corazze della collezione “Alluminio” della stilista fiorentina Germana Marucelli, ispirati dalle sculture dell’artista udinese Getulio Alviani. La galleria, in questo caso, diventa luogo di incrocio di intellettuali, scrittori, stilisti, artisti, collezionisti, mondanità: a commentare gli abiti di Marucelli ci sono Gillo Dorfles e Giuseppe Ungaretti.
In mostra al Maxxi, e raccontati nel catalogo, accanto a quelle dei triestini o triestini d’adozione, sfilano le creazioni di Capucci, Biki, Carosa, Maria Antonelli, Fendi, Sorelle Fontana, Irene Galitzine, Fernanda Gattinoni, Valentino, Jole Veneziani, Simonetta, Fabiani, Emilio Schuberth, “complici” e in dialogo con altre creazioni, le opere di Fontana, Burri, Paolo Scheggi, Alviani, Campigli, Carla Accardi e Capogrossi, testimonianza della sperimentazione e della vitalità di un’epoca straordinaria.

 
Un’epoca che per Gigliola Curiel, Biki e Jole Veneziani si chiude bruscamente al Sant’Ambrogio del 1968, quando la violenta contestazione guidata da Mario Capanna fuori dalla Scala copre di uova marce e pomodori le pellicce e gli abiti da sera delle signore dirette alla prima del “Don Carlo” di Verdi, sul podio Abbado e la regia di Ronconi. Sono lontani i tempi in cui le clienti passavano nell’atelier di Gigliola e della figlia Lella per prenotare i “curiellini”, gli abitini neri perfetti in ogni occasione, che la Cederna ribattezzò “scemarelli”.

 
Finiva una stagione, il testimone passava al prêt-á-porter. Il marchio Mila Schön, dopo la morte della stilista nel 2008, è oggi del gruppo giapponese Itochu. Ma per l’atelier Curiel - con Lella e un’altra Gigliola, sua figlia, nipote della Gigliola che espugnò la penna affilata della Cederna - e per Renato Balestra, il sogno dell’alta moda continua ancora.
@boria_a


Abito di Valentino indossato da Jackie Kennedy 1967-'68; completo da giorno in lana double face 1967 Ognibene-Zendman; cappotto in visone con lavorazione chevron Fendi 1960-'61; abito redingote di ispirazione ecclesiale realizzato dalle Sorelle Fontana per Ava Gardner, 1955


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